Decesso del neonato e incompletezza della cartella clinica

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La incompletezza della cartella clinica, se rilevante ai fini della ricostruzione del nesso eziologico, deve essere accertata secondo il criterio civilistico del più probabile che non (Cassazione Civile, sez. III, 17/06/2024, n.16737).

I fatti

I genitori della bambina deceduta presso l’Ospedale di Nuoro, contestano in Cassazione, oltre all’errore medico, un grave inadempimento dell’ospedale riguardo la cura e la incompletezza della cartella clinica perché da essa non risultava il tracciato della penultima indagine cardiotocografica.

La donna, ultra quarantenne e al primo parto, si recava in ospedale il 30 dicembre 2000, alla scadenza della quarantesima settimana di gravidanza per sottoporsi a un esame strumentale, all’esito del quale il medico di turno consigliava il ricovero.

Veniva sottoposta, nei giorni seguenti, a diversi esami sia di laboratorio, che ecografici, che cardiotocografici, finché dall’ultimo tracciato, eseguito all’alba del 4 gennaio 2001, emergeva “scarsa variabilità del feto”, equivalente a una fase preagonica. Solo in quel momento veniva impartito l’ordine di effettuare immediatamente il cesareo, dal quale la bambina nasceva senza vita.

La vicenda giudiziaria

Secondo la tesi dei danneggiati, il personale sanitario sarebbe stato gravemente inadempiente, perché la gravida, che presentava diversi fattori di rischio, avrebbe dovuto essere sottoposta ad esami strumentali più assidui e a un intervento cesareo di urgenza che avrebbe salvato la vita alla bambina.
Oltre a ciò viene fermamente contestata anche una importante incompletezza della cartella clinica perché non risultava il tracciato della penultima indagine cardiotocografica (cioè quella della sera del 3 gennaio 2001), eseguita la sera precedente al parto, la cui avvenuta esecuzione, oltre ad essere stata allegata dagli attori, era stata accertata anche dal GIP nel procedimento penale a carico dei sanitari. In quel tracciato della sera del 3 gennaio ore 20 emergeva una sofferenza in atto del feto che, ove rilevata, avrebbe consentito, con un intervento cesareo d’urgenza eseguito subito la sera stessa, di evitare la morte della bambina. Il Tribunale accoglieva la domanda dei genitori della bambina.

In sede di Appello (proposto dall’azienda Sanitaria) viene rinnovata la CTU medico-legale in quanto i Consulenti del primo grado avevano rassegnato opposte conclusioni in merito alla responsabilità dei sanitari, con una discrasia di valutazioni che la Corte d’appello non riteneva apparente (come definita e ritenuta invece dal Giudice di prime cure). Il giudizio di secondo grado si conclude con il rigetto della domanda.

La nuova CTU

Prendendo in considerazione i tracciati effettuati fino al pomeriggio del 3 gennaio alle 16:50 la Corte d’appello, sulla base delle valutazioni concordanti dei CTU nominati in appello, conformi a quelle rese in sede di procedimento penale, riteneva che “fino al tracciato pomeridiano non emergeva alcun dato indicativo di sofferenza fetale che consigliasse un intervento immediato e neppure emergeva un dato tale da suggerire l’esecuzione di controlli più ravvicinati”.

Per tale ragione la Corte territoriale riteneva conforme alle risultanze degli esami, e frutto di una valutazione corretta secondo i dati a disposizione ex ante, la decisione dei sanitari di non intervenire fin dalla sera prima con un taglio cesareo e di non eseguire altro controllo CTG fino alla mattina del 4 gennaio 2001.

Ragionando in tal senso, quindi, nessuna responsabilità vi era a carico dei sanitari e la morte per asfissia della bambina derivava dal doppio giro di funicolo rilevato in sede di esecuzione del cesareo, e poi in sede di autopsia. Quindi al verificarsi di un fatto repentino e imprevedibile, non deducibile dagli esami strumentali condotti fino al pomeriggio precedente, che non avrebbe potuto essere evitato neppure mediante esami più frequenti.

Per quanto riguarda la mancanza del tracciato asseritamente effettuato nella sera del 3 gennaio 2001, la Corte d’appello affermava che nessuna indicazione di esso fosse contenuta nella cartella clinica, e che, “anche se si volesse ritenere provato il fatto storico dell’avvenuto compimento dell’esame strumentale (come emergeva dalla prova testimoniale effettuata in sede penale, corroborata dal provvedimento del GIP prodotto in causa), l’accertamento in fatto effettuato nel procedimento penale dell’avvenuta esecuzione di quell’esame non riportato nella cartella clinica non poteva essere sufficiente, da solo, per dimostrare o anche fare presumere che il tracciato avesse dato indicazioni certe di sofferenza fetale patologica, impositive di un più tempestivo taglio cesareo”.

Il ricorso in Cassazione

La decisione di secondo grado viene impugnata e la Cassazione accoglie le doglianze delle vittime.

Riguardo le “omesse informazioni” della cartella clinica, la S.C. rammenta che non è necessario alla parte che vuole fare accertare una lacuna, o una omissione, proporre querela di falso, ma si apre la diversa problematica della lacunosa tenuta e della incompletezza della cartella clinica e delle regole probatorie applicabili nel caso in cui una attività effettivamente svolta non risulti debitamente annotata nella stessa.

Viene data continuità al principio secondo il quale la cartella fa fede fino a querela di falso solo in positivo, e in relazione ai dati obiettivi in essa contenuti. In relazione ai dati mancanti, che una delle parti assume dovessero essere riportati, perché relativi ad attività (nel caso in esame, cliniche o terapeutiche) che assume si siano svolte, la prova può essere fornita con ogni mezzo e si tratta di accertamento in fatto, riservato al giudice di merito.

Questo significa che la Corte di Appello ha errato a non valutare le risultanze istruttorie diverse dalla cartella clinica (prove testimoniali, svolte sia nel processo civile che nel precedente procedimento penale), mediante le quali gli appellati segnalavano che si potesse accertare che tra l’esame pomeridiano compiuto alle 16.50, in cui il feto era in condizioni normali, e l’esame compiuto all’alba del giorno dopo, in cui il feto era già in condizioni critiche, ce n’era stato un altro (quello appunto delle ore 20,00 del 3 gennaio) in cui le difficoltà respiratorie e la scarsa mobilità del feto cominciavano già ad emergere, assumendo che l’attendibilità e la incompletezza della cartella clinica potevano essere poste in discussione solo a mezzo della querela di falso.

L’incompletezza della cartella clinica

La ricostruzione degli avvenimenti precedenti al parto, e la conseguente valutazione della correttezza o meno dell’operato dei sanitari (in particolare, l’aver atteso fino all’alba del 4 gennaio per intervenire con il cesareo d’urgenza), risulta falsata dal fatto che si sia dato per inesistente (non essendo stata contestata con querela di falso la sua mancata risultanza in cartella clinica) il tracciato che gli attori assumono essere stato eseguito alle 20 della sera precedente al parto.

Concludendo, la S.C. ribadisce e dà continuità (Cass. n. 27561/2017 e 26428/2020) al principio che la incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente (allorché proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno). Il principio che opera in questo caso è quello della vicinanza alla prova,

La Suprema Corte accoglie i motivi cassa la sentenza in relazione.
Il Giudice del rinvio dovrà fare applicazione del seguente principio di diritto:

“Le attestazioni contenute in una cartella clinica, redatta da un’azienda ospedaliera pubblica, o da un ente convenzionato con il servizio sanitario pubblico, hanno natura di certificazione amministrativa, cui è applicabile lo speciale regime di cui agli artt. 2699 e segg. c.c., per quanto attiene alla indicazione ivi contenute delle attività svolte nel corso di una terapia o di un intervento. La prova dell’effettivo svolgimento di attività non risultanti dalla cartella clinica stessa può essere invece fornita con ogni mezzo. Non sono coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa annotate”.

Avv. Emanuela Foligno

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