La rondine di tarda primavera, i caregiver e il comma dimenticato

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La sentenza in commento dello scorso 5/6/2024, resa dal Tribunale Lavoro di Ancona (RG 277-2024) così come gli immediati precedenti, conferma l’attenzione della giurisprudenza – già in atto da molto, tempo ad ogni livello – intorno ai lavoratori che fanno un uso asseritamente improprio dei permessi per assistere familiari con disabilità, oggetto nell’ultimo periodo di una stretta interpretativa sempre più severa, e forse ingiustificata in base al dato normativo.

La giurisprudenza si è più volte pronunciata sulla tematica dell’abuso del diritto con riferimento all’uso improprio delle prestazioni assistenziali da parte dei lavoratori. E nel contro del tempo ha assunto un orientamento di particolare rigore (il profilo dell’abuso del diritto è stato trattato in dottrina sotto vari aspetti ma, per esigenze di spazio espositivo, pare opportuno richiamare le teorie che riconducono l’illecito ai casi di violazioni dei principi di correttezza e buona fede nella fase esecutiva del contratto. In tal senso, si veda Mammone 208; Pino 25, Falco 2010).

La casistica più nutrita riguarda principalmente la tematica dei licenziamenti disciplinari intimati a causa dell’utilizzo di permessi ex art. 33, l. n. 104 del 1992 per finalità diverse da quelle della cura del disabile, rispetto alle quali l’odierna ordinanza rappresenta un aggiornamento e, insieme, una conferma.

In questo filone, il Tribunale dorico assume sul tema una posizione peculiare affermando che in nessuna parte della legge si evince che nei casi di permesso l’attività di assistenza debba essere prestata proprio nelle ore in cui il lavoratore avrebbe dovuto svolgere la propria attività lavorativa.

Un ragionamento tanto basico – a ben vedere rimanda al criterio letterale di interpretazione del testo normativo – quanto importante in quanto consente di attribuire alla legge anche la finalità di consentire al lavoratore che con abnegazione dedica tutto il proprio tempo al famigliare handicappato di ritagliarsi un breve spazio di tempo per provvedere ai propri bisogni ed esigenze personali.

È noto come la legge 5 febbraio 1992 n. 104 rappresenti il primo impianto normativo che si possa definire come basato sui diritti civili della persona.

Un passo avanti notevole, anche per l’epoca in cui è avvenuto, e che ha avuto nel corso degli anni le sue motivazioni e le dovute conseguenze. È altrettanto vero che a fronte di un catalogo di diritti piuttosto ampio, basato sulla legge stessa, quest’ ultima sia conosciuta ai più principalmente per i permessi garantiti dal suo art. 33.

Lo scopo primario della legge tuttavia era e rimane quello di regolare, in maniera ampia, i diritti delle persone con disabilità e dei familiari che le assistono (caregiver), stabilendo principi, tutele e agevolazioni usufruibili dai diretti interessati e dai loro parenti. Se è vero che esistono differenze significative sui benefici di legge a seconda che si ottenga o meno la connotazione di handicap grave (art. 3 comma 1 contro art. 3 comma 3), le finalità della legge 104 sono chiare: non soltanto rispondere alle speciali esigenze di alcune persone, ma anche sancirne il pieno diritto a realizzarsi e autodeterminarsi, con libertà ed indipendenza.

La legge infatti non si limita a fare delle affermazioni teoriche di principio, ma realizza un sistema di doveri e diritti, con lo scopo di eliminare le disparità tra persone disabili e persone non disabili.

La legge 104 ha infatti introdotto il principio di abbattimento delle barriere architettoniche e molte altre previsioni fondamentali.

Come già accennato in precedenza si tratta di una normativa che è conosciuta al pubblico dei non addetti ai lavori proprio e principalmente per i permessi lavorativi recati dall’art. 33 della stessa legge.

In tale specifico ambito occorre considerare che i diritti costituzionalmente rilevanti e protetti, che vengono in gioco in fattispecie come quella risolta dalla sentenza in commento, non sono solo quelli dei disabili alla necessaria assistenza e del datore di lavoro nella organizzazione della propria attività economica (artt. 38 e 41 Cost) ma anche quello del congiunto assistente e lavoratore ad esprimere la propria personalità anche nell’ambiente sociale ed in particolare verso i restanti componenti del nucleo familiare cosi come ad un effettivo riposo dall’attività lavorativa.

Un principio ed un elemento di civiltà – non solo giuridica – più volte interpretato dalla giurisprudenza nazionale ai più vari livelli. Non stupisce quindi l’ultimo arresto della Suprema Corte che analizzeremo a seguire.

Se è vero dunque che i permessi in parola sono utilizzabili solo per assistenza diretta del disabile, il concreto atteggiarsi della attività di assistenza è liberamente graduabile secondo orari e modalità – anche flessibili – che tengano però conto delle esigenze e delle necessità della persona da assistere.

Un ragionamento contrario, magari in coerenza con la ratio del beneficio, per cui l’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, si ritrova in Cassazione Civile Sezione Lavoro 12/3/2024 n. 6468 che su basa sul presupposto che il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela; ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi, non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione, ma la soluzione adottata nel precedente specifico non coglie nel segno, non pienamente almeno.

Dunque il licenziamento inaspettato si ritiene tale da configurare un danno diretto nei confronti della persona disabile assistita che si trova – in ipotesi astratta – a trovarsi, senza i livelli di assistenza cui era abituato e che era lecito attendersi e tale da configurare un potenziale rischio per la sua integrazione, secondo le finalità esplicite della legge 104, al netto di tutte le integrazioni.

Risulta infatti palese come i diritti di assistenza siano – per quanto risulta dal complesso della giurisprudenza – collegati all’esistenza ed alla validità di un rapporto di lavoro che per le sue caratteristiche consenta di fruire dei permessi, e degli altri benefici.

Per assurdo un tale modo di interpretare la legge andrebbe contro gli interessi stessi della persona con disabilità che riceva assistenza, per esempio nell’ipotesi in cui si abbia bisogno di minore assistenza nelle ore in cui il lavoratore presta la propria attività lavorativa.

Ma siamo di fronte ad una pronuncia profondamente importante nel momento in cui riconosce il ruolo del caregiver familiare, delineandone la figura ed ancorandone la tutela a basi giuridiche estremamente solide, che rimandano anche al sempre dimenticato comma 2 dell’art. 41 Cost, anche nella versione antecedente alla riforma del 2022[1].

Se è vero infatti che il riferimento alla sola utilità sociale contenuto nel testo originario, non aveva indotto interpretazioni estensive dello scopo dell’impresa, è proprio sulla base di tale utilità sociale che negli anni la giurisprudenza ha progressivamente imposto il rispetto dei diritti sociali ad un mondo economico spesso – e tuttora – renitente ad essi.

Il nuovo testo del comma 2 non fa altro che garantire maggiore forza ai diritti sociali, ed in particolare ai diritti della disabilità, essendo necessario tutelare in ogni caso la salute e la personalità morale del lavoratore, come emerge dal riferimento all’art. 2087 c.c.

Sta agli operatori illuminati di giustizia fare in modo che la sentenza del tribunale dorico non rimanga una rondine fuori di primavera, ma assuma i caratteri di un orientamento stabile e consolidato.

Avv. Silvia Assennato
Foro di Roma


[1] L’iniziativa economica privata è libera [2082 ss. c.c.]. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana [2087 c.c.]. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali

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