La Corte di Cassazione ha rideterminato, per sopravvenuta illegalità conseguente alla pronuncia della corte costituzionale n. 40 del 2019, la pena inflitta all’imputato per detenzione di stupefacenti, in 4 anni e 2 mesi di reclusione e 25.000,00 Euro di multa

La vicenda

In primo grado, il Tribunale di Nola aveva condannato l’imputato alla pena di sei anni di reclusione e 25.000,00 Euro di multa per detenzione di stupefacenti a fine di spaccio.

Secondo quanto accertato, l’uomo era stato visto dagli agenti di polizia giudiziaria, seduto nei pressi dell’ingresso di uno stabile; insospettiti dalla presenza di una busta posta sul davanzale di una finestra del piano terra dell’edificio, a pochi centimetri dall’imputato, gli agenti si erano avvicinati a quest’ultimo, il quale immediatamente si dava alla fuga. Una volta raggiunto e bloccato, procedevano al sequestro delle busta al cui interno trovavano la sostanza stupefacente. Si trattava di 30 involucri di cocaina – crack del peso complessivo di 10,43 grammi, pari a 47,8 dosi medie singole, nonché 5 dosi di cocaina del peso complessivo di 1,20 grammi, e 27,68 grammi di hashish, pari a 98,9 dosi singole.

Giunti in appello, la corte territoriale rideterminava la pena a cinque anni e quattro mesi di reclusione ed Euro 25.000,00 di multa, confermando nel resto la sentenza impugnata.

Il ricorso per Cassazione

Con l’unico e articolato motivo di ricorso l’imputato ha dedotto la violazione di disposizioni di legge penale e processuale e la manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) et e).

Dopo aver richiamato i criteri ermeneutici stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità in ordine al vizio di motivazione, ha lamentato la mancata considerazione da parte della Corte territoriale dei motivi d’appello, mediante i quali era stata sottolineata l’insufficienza degli elementi a disposizione per poter affermare la responsabilità penale a suo carico.

La Corte di Cassazione (sentenza n. 43103), pur rilevando l’inammissibilità del ricorso, in quanto, pressoché riproduttivo dell’atto d’appello, ha ugualmente rilevato la sopravvenuta illegalità della pena, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, nella parte in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni.

Un ricorso … inammissibile

Le doglianze formulate dall’imputato con l’unico motivo di ricorso sono state giudicate inammissibili, essendo volte a conseguire una rivisitazione degli elementi di fatto, tale da escludere la responsabilità per il fatto oggetto di imputazione.

Come noto, alla Corte di cassazione è preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno.

Parimenti è inammissibile, il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti in sede di impugnazione e motivatamente respinti da parte del giudice del gravame.

L’inammissibilità del ricorso non ha impedito ai giudici della Suprema Corte di rilevare la sopravvenuta illegalità della pena detentiva, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019.

Ed invero, la corte territoriale, nel determinare la sanzione a carico dell’imputato, aveva considerato quale base di computo la pena detentiva minima di 8 anni di reclusione (dichiarata costituzionalmente illegittima) e quella pecuniaria di 30.000,00 Euro di multa, ridotta nel massimo di un terzo per effetto del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e, aumentata per la continuazione.

La redazione giuridica

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