Email, SMS e messaggi WhatsApp vanno intesi come corrispondenza

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La Corte di Cassazione sulla natura di prova documentale di email, SMS e messaggi WhatsApp (Cass. pen., sez. II, dep. 28 giugno 2024, n. 25549).

Il principio di diritto espresso:

“In tema di mezzi di prova, i messaggi di posta elettronica, i messaggi WhatsApp e gli SMS conservati nella memoria di un dispositivo elettronico conservano la natura di corrispondenza anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo o per altra causa, essi non abbiano perso ogni carattere di attualità, in rapporto all’interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento “storico”, sicché – fino a quel momento – la loro acquisizione deve avvenire secondo le forme previste dall’art. 254 c.p.p. per il sequestro della corrispondenza”.

La vicenda

Il caso trae origine dall’impugnazione svolta da uno degli imputati sulla inutilizzabilità dei messaggi WhatsApp utilizzati a suo carico, in quanto, si assumeva che la loro acquisizione doveva avvenire con le forme previste dagli artt. 253 e 254 c.p.p. trattandosi di corrispondenza.

La particolarità della decisione a commento riguarda il problema se la posta elettronica, i messaggi WhatsApp, SMS e altra messaggistica istantanea mantengano la natura di “corrispondenza” anche quando siano stati ricevuti e letti dal destinatario e ormai conservati e giacenti nella memoria dei dispositivi elettronici dello stesso destinatario o del mittente.

Il dibattito

Chiaramente la problematica è coniugata con l’art. 15 Cost.: il dibattito sorto registra due scuole di pensiero.

Secondo l’una concezione, la corrispondenza già ricevuta e letta dal destinatario non è più un mezzo di comunicazione, perde la natura di corrispondenza e diventa un semplice documento. Questo indirizzo è consolidato e afferma che posta elettronica, SMS e messaggi WhatsApp, già ricevuti e memorizzati nel computer o nel telefono cellulare del mittente o del destinatario, hanno natura di “documenti” ai sensi dell’art. 234 c.p.p..

Questo significa che la loro acquisizione processuale non soggiace né alla disciplina delle intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 266-bis c.p.p.), né a quella del sequestro di corrispondenza ex art. 254 c.p.p.

Secondo la seconda concezione, la natura di “corrispondenza” non si esaurisce con la mera ricezione del messaggio e la presa di cognizione del suo contenuto da parte del destinatario, ma permane finché la comunicazione conservi carattere di attualità e di interesse per i corrispondenti, venendo meno solo quando il decorso del tempo o altra causa abbia trasformato il messaggio in documento “storico”, cui può attribuirsi un valore restrospettivo, affettivo, collezionistico, artistico, scientifico o probatorio.

Email, SMS e messaggi WhatsApp vanno intesi come “corrispondenza”

Ciò posto, la Cassazione richiama la decisione della Corte Costituzionale (170/2023) che ha chiarito che “la natura di corrispondenza va correttamente intesa nel senso espresso dalla seconda concezione, in quanto la degradazione della comunicazione a mero documento quando non più in itinere restringerebbe l’ambito della tutela costituzionale apprestata dall’art. 15 Costituzione alle sole ipotesi di corrispondenza cartacea. Tutela che sarebbe del tutto assente in relazione alle comunicazioni operate tramite posta elettronica e altri servizi di messaggistica istantanea, in cui all’invio segue la ricezione con caratteri di sostanziale immediatezza”.

Calandoci nel caso concreto, la Cassazione rileva che non vi è stata la violazione dell’art. 254 c.p.p. denunciata dal ricorrente. Difatti tale norma, in ottica costituzionalmente orientata, dispone sostanzialmente che il sequestro della corrispondenza avvenga su disposizione, ovvero sotto il controllo dell’Autorità Giudiziaria. La norma, in sostanza, vieta alla polizia giudiziaria di avere accesso al contenuto dei messaggi e consente il sequestro del loro “contenitore” (sia esso un plico cartaceo oppure il dispositivo elettronico che contiene messaggi trasmessi in forma telematica) che deve essere consegnato all’autorità giudiziaria, unica legittimata a verificarne il contenuto, senza che la polizia giudiziaria possa accedervi di propria iniziativa.

Nel caso concreto in esame, i messaggi a carico del terzo ricorrente sono stati rinvenuti nella memoria dello smartphone del primo. La loro acquisizione è dunque avvenuta nel rispetto delle forme indicate, in quanto la polizia giudiziaria si è limitata al sequestro dello smartphone, senza accedere ai suoi contenuti. Lo smartphone veniva, infatti, messo a disposizione del P.M. che, con proprio provvedimento, disponeva l’accesso alla memoria dello smartphone e l’estrapolazione dei contenuti dei messaggi conservati nella sua memoria.
In applicazione di tale principio, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso per inammissibilità e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Ha inoltre dichiarato inammissibili i ricorsi degli altri due ricorrenti, condannandoli al pagamento delle spese processuali.

Avv. Emanuela Foligno

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