Epatite C post-trasfusionale e danno differenziale (Cassazione civile, sez. lav., dep. 27/05/2022, n.17334).

Epatite C post-trasfusionale e danno differenziale invocato dal danneggiato nei confronti dell’Azienda Ospedaliera e del Ministero della Salute.

La Corte d’Appello di Messina, rigettava l’appello incidentale dell’Azienda che era volto a far riconoscere il proprio difetto di legittimazione passiva e l’estraneità alla vicenda oggetto di causa, accoglieva l’appello principale del danneggiato e condannava il Ministero e l’Azienda sanitaria a pagare, a titolo di risarcimento del danno, la complessiva somma di Euro 137.356,50, detratto quanto allo stesso corrisposto a titolo di indennizzo post-trasfusionale ai sensi della L. n. 210 del 1992.

Il paziente adiva il Tribunale chiedendo la corresponsione dell’indennizzo previsto dalla L. n. 210, in relazione ad una trasfusione del maggio 1975, e il risarcimento del danno integrale (patrimoniale e non patrimoniale) derivante dalla violazione delle disposizioni di cui agli artt. 2043, 2049 e 2050, c.c., nonché il risarcimento del danno da tardivo pagamento da parte del Ministero della salute.

Quanto alla domanda di indennizzo ex L. n. 210 del 1992, il Tribunale dichiarava cessata la materia del contendere essendo intervenuto il relativo pagamento.

Il Tribunale disattendeva la domanda relativa al danno differenziale, ferma la responsabilità per epatite C post-trsfusionale, perché pur essendo in astratto configurabile una responsabilità extra contrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c., assumeva che il danneggiato non aveva né allegato, né dimostrato, la natura illecita del comportamento del Ministero, il danno ingiusto subito, il nesso causale tra il comportamento del Ministero, il danno, nonché l’elemento soggettivo richiesto per potere configurare una responsabilità aquiliana (dolo o colpa).

Escludeva, inoltre, qualsiasi responsabilità in capo al Ministero ex artt. 2049 e 2050, c.c., in considerazione dell’assenza di un rapporto di preposizione fra lo stesso, le Aziende Ospedaliere e ASL, organi dotati di piena autonomia, capacità e responsabilità.

La Corte d’appello rilevava che oggetto del giudizio era il danno differenziale consistente nel danno integrale (sotto il profilo patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo comprendente sia il danno biologico che quello morale), per l’epatite C post-trasfusionale, detratto quanto percepito a titolo di indennizzo.

Sulla configurabilità di una piena tutela risarcitoria, anche in presenza della corresponsione dell’indennizzo previsto dalla L. n. 210 del 1992, il Giudice di Appello ha ricordato che vi è un’ampia giurisprudenza.

Il Giudice di secondo grado ha confermato la sentenza del Tribunale quanto all’esclusione della responsabilità del Ministero della salute ex artt. 2049 e 2050 c.c., mentre ha accolto la domanda di risarcimento ex art. 2043 c.c., censurando la motivazione della sentenza del giudice di primo grado che aveva ritenuto generica la domanda.

Pacifico che il danno era rappresentato dalla contrazione di epatite C cronica a seguito di trasfusione di emoderivati, e che tale danno fosse riconducibile al comportamento delle controparti trovava conferma nel giudizio espresso dal Ministero il 20 ottobre 2003, con cui veniva riconosciuto il nesso causale tra la trasfusione e l’indennità “epatite C cronica HCV correlata con segni bioumorali di sofferenza epatica in soggetto emotrasfuso”.

Per quanto concerne la responsabilità di cui all’art. 2043 c.c., affinché il danno possa qualificarsi ingiusto, già il Giudice di primo grado rilevava che seppure il paziente aveva contratto l’epatite C a seguito di trasfusione effettuata nel 1975, epoca in cui gli accertamenti per HCV non erano richiesti dalla normativa e non erano ancora eseguibili per mancanza del relativo test, la L. n. 592 del 1967, aveva attribuito al Ministero le direttive tecniche per l’organizzazione, il funzionamento e il coordinamento dei servizi inerenti la raccolta, preparazione, conservazione e distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale, la preparazione dei suoi derivati, affidando al Ministero stesso la vigilanza, nonché il compito di autorizzare l’importazione ed esportazione del sangue umano e dei suoi derivati per uso terapeutico.

Ergo, la Corte d’Appello, concludeva, che anche prima della L. n. 807 del 1990, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, doveva ritenersi sussistente in materia, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di controllo, direttiva e vigilanza da parte del Ministero della sanità, anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria.

Inquadrata, quindi, la responsabilità del Ministero nell’ambito della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., da omessa vigilanza, è stata esaminata la questione del nesso causale, e cioè se al tempo in cui si è verificato il fatto dannoso l’evento fosse evitabile secondo le conoscenze scientifiche del momento.

IL CTU accertava che “all’epoca della trasfusione il virus dell’epatite C non era stato ancora identificato e non esistevano test specifici che potevano rilevarne in modo diretto la presenza nel sangue…..Tuttavia, all’epoca vi era già piena consapevolezza dell’esistenza di altri virus epatici e della loro possibile trasmissione attraverso la trasfusione di sangue….Tali virus epatici diversi da quelli già identificati, virus dell’epatite A e virus dell’epatite B, venivano classificati come epatiti non A non B……Al tempo era possibile effettuare test surrogati o indiretti che avrebbero consentito uno screening sui donatori e, nel caso di positività, poteva genericamente presumersi che i donatori fossero portatori di infezioni da virus epatico.”

Pertanto, sulla scorta delle relazioni della CTU, la Corte d’Appello riteneva sussistente anche la responsabilità dell’Azienda Ospedaliera, atteso che sulla base delle circolari ministeriali l’Azienda avrebbe dovuto procedere ai test indiretti che avrebbero consentito in un rilevante numero di casi di non utilizzare per le trasfusioni il sangue di cui fosse accertato il livello elevato di transaminasi; mentre la responsabilità del Ministero sussisteva per omessa vigilanza sulla preparazione-utilizzazione del sangue e degli emoderivati da parte delle strutture sanitarie.

L’Azienda Ospedaliera ricorre in Cassazione lamentando, per quanto qui di interesse la violazione dell’art. 2043 c.c. e contestando la ritenuta mancata effettuazione degli ulteriori controlli che avrebbe potuto sollevare il dubbio sulla utilizzabilità del sangue.

Le doglianze non sono fondate.

In caso di patologie conseguenti ad infezione da epatite C, B e  HIV, contratte a seguito di emotrasfusioni o di somministrazione di emoderivati, sussiste la responsabilità del Ministero della Salute anche per le trasfusioni eseguite in epoca anteriore alla conoscenza scientifica di tali virus e all’apprestamento dei relativi test identificativi (risalenti, rispettivamente, agli anni 1978, 1985, 1988), atteso che già dalla fine degli anni ‘60 era noto il rischio di trasmissione di epatite virale ed era possibile la rilevazione (indiretta) dei virus, che della stessa costituiscono evoluzione o mutazione, mediante gli indicatori della funzionalità epatica, gravando pertanto sul Ministero della salute, in adempimento degli obblighi specifici di vigilanza e controllo posti da una pluralità di fonti normative speciali risalenti già all’anno 1958, l’obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni e gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazione della transaminasi.

La responsabilità extracontrattuale del Ministero, in ordine ai compiti di controllo, direzione e vigilanza, non esclude affatto quella (eventualmente) a carico della Struttura e dei medici, a carattere, invece, contrattuale ex artt. 1218 e 1228 c.c., quanto meno in relazione al contatto sociale che viene a instaurarsi tra paziente, strutture sanitarie e medici, anche in caso di emotrasfusioni.

L’Azienda Ospedaliera si è limitata ad affermare genericamente di avere utilizzato sacche messe a disposizioni del Ministero, senza dedurre la mancanza di un proprio centro trasfusionale, senza assolvere al proprio onere probatorio inerente la insussistenza di inadempimento contrattuale nei confronti del paziente, secondo i criteri della responsabilità contrattuale.

In conclusione, il ricorso viene rigettato con conferma delle statuizioni di Appello.

Avv. Emanuela Foligno

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