L’indennizzo di legge per epatite post-trasfusionale non è dovuto laddove il danneggiato non presenti, in ragione dello stato di quiescenza della malattia, sintomi e pregiudizi funzionali attuali

In tema di indennizzo in favore di soggetti danneggiati da epatite post-trasfusionale, l’art. 1, comma 3, della I. n. 210 del 1992, letto unitamente al successivo art. 4, comma 4, deve interpretarsi nel senso che l’indennizzo spetta a coloro che presentino danni irreversibili che possano inquadrarsi – pur alla stregua di un mero canone di equivalenza e non già secondo un criterio di rigida corrispondenza tabellare – in una delle infermità classificate in una delle otto categorie di cui alla tabella B, annessa al testo unico approvato con d.P.R. n. 915 del 1978, come sostituita dalla tabella A allegata al d.P.R. n. 834 del 1981. Ne consegue che, ove il soggetto, portatore di lesioni permanenti dell’integrità psicofisica da contagio HCV, non presenti, in ragione dello stato di quiescenza della malattia, sintomi e pregiudizi funzionali attuali, che incidano sulla capacità di produzione reddituale, non spetta alcun indennizzo, in quanto l’infermità non rientra in alcuna delle categorie della menzionata tabella A. Rientra nella discrezionalità del legislatore, compatibile con il principio di solidarietà (art. 2 Cost.) e con il diritto a misure di assistenza sociale (art. 38 Cost.), la previsione di una soglia minima di indennizzabilità del danno permanente alla salute nel caso di trattamenti sanitari non prescritti dalla legge o da provvedimenti dell’autorità sanitaria. Lo ha chiarito la Cassazione con l’ordinanza n. 32937/2021 pronunciandosi sul ricorso di un uomo che si era visto respingere, in sede di merito, la domanda volta al conseguimento delle prestazioni ex lege 201/92 per emotrasfusione con sangue infetto a seguito di ricovero per incidente stradale.

La Corte territoriale, in particolare, aveva escluso il diritto alle prestazioni in ragione dell’assenza di danno attuale in quanto l’assistito, pur affetto dal HCV, aveva un danno inferiore al 10%, corrispondente alla tab. B (e non alla tabella A) allegata al dpr 834/81, in quanto privo di compromissione funzionale.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, il ricorrente deduceva violazione degli artt. 1 co 3 e 4 co. 1 e 4 della legge 210/92 nonché 61 e 195 c.p.c., nonché vizio di motivazione, per non avere il ctu (le cui conclusioni erano state recepite dalla sentenza impugnata) effettuato giudizio di equiparabilità delle patologie del ricorrente nelle 8 categorie di cui alla tabella A allegata al d.p.r. richiamato. Lamentava, inoltre, che la sentenza impugnata non avesse ammesso le prove richieste per dimostrare la ricorrenza in concreto dei risvolti – riconosciuti in astratto nella letteratura scientifica- nella sfera psichica del paziente del danno subito da epatite C.

Gli Ermellini, nel dichiarare infondate le doglianze proposte, hanno reputato corretta la decisione del Collegio distrettuale, basata sull’assenza di danno attuale dell’assistito sul piano funzionale, ciò che escludeva sia la riconducbilità dell’epatite alle categorie tabellate sub tabella A (escluse in modo chiaro, pur senza una -non necessaria- analisi della diversità della patologia riscontrata rispetto a ciascuna delle malattie tabellate), sia la rilevanza delle prove volte a dimostrare i riflessi psicologici della patologia (escluse con motivazione corretta e non censurabile).

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