Rischia di essere condannato per accesso abusivo in un sistema informatico il coniuge che accede al profilo Facebook del partner e fotografa le conversazioni intrattenute da quest’ultimo con terzi in una chat privata
La vicenda
La Corte di appello di Palermo aveva confermato la condanna emessa dal Giudice monocratico della stessa sede nei confronti dell’imputato, ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 615 ter c.p., commesso accedendo al profilo Facebook della moglie grazie al suo nome utente ed alla password utilizzati da quest’ultima, a lui noti da prima che la loro relazione si incrinasse.
L’imputato – secondo quanto accertato dai giudici di merito – aveva così potuto fotografare una chat intrattenuta dalla moglie con un altro uomo e poi cambiare la password, sì da impedirle di accedere al social network.
La sentenza della Corte palermitana è stata impugnata con ricorso per cassazione dal difensore dell’imputato, che ha denunziato l’errata qualificazione del reato addebitato.
Ma il ricorso è stato dichiarato inammissibile. La difesa mirava ad ottenere una “propria lettura degli accadimenti, pretendendo di valutare, o rivalutare, gli elementi probatori al fine di trarre proprie conclusioni in contrasto con quelle della Corte di appello, operazione non consentita nel giudizio di legittimità”.
Di contro la Corte territoriale aveva fornito una motivazione immune da vizi essendo stata correttamente e razionalmente valutata la convergenza tra una serie di elementi.
Tra questi, il dato incontestato – riferito dalla parte lesa – circa la conoscenza che il prevenuto avesse le credenziali di accesso a Facebook.
Ma anche “la resa dei conti” avvenuta mostrando alla moglie, quella mattina stessa, proprio la chat “incriminata” (e poi producendola nel giudizio di separazione). E ancora, la circostanza obiettiva della connessione servita per modificare la password, avvenuta dalla casa del padre dell’imputato. Nel contempo, i giudici di appello avevano altrettanto razionalmente valorizzato la compatibilità logica della condotta di cui l’imputato era accusato con il movente di gelosia che lo animava.
La questione giuridica
Nel corso del processo di merito era stato poi affrontato un altro tema che lo stesso ricorrente aveva posto in evidenza, vale a dire quello della valenza a discarico dell’avvenuta comunicazione delle credenziali da parte della persona offesa prima del lacerarsi della loro relazione.
Ebbene, come già in passato è stato affermato (Sez. 5, n. 52572 del 06/06/2017) “la circostanza che il ricorrente sia a conoscenza delle chiavi di accesso della moglie al sistema informatico – quand’anche fosse stata quest’ultima a renderle note e a fornirle (come ad esempio un’implicita autorizzazione all’accesso) – non esclude il carattere abusivo degli accessi”. In particolare, nel caso in esame, per mezzo delle condotte contestate l’imputato era riuscito ad ottenere “un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ius excludendi alios, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate e finanche l’estromissione dall’account Facebook della titolare del profilo e l’impossibilità di accedervi”.
La decisione
Per tutte queste ragioni il ricorso è stato dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende (Cassazione, Quinta Sezione Penale, sentenza n. 2905/2019).
La redazione giuridica
Leggi anche:
CHAT DI WHATSAPP, VALIDE IN GIUDIZIO SOLO CON L’ACQUISIZIONE DEL TELEFONO