“(…)così come non esiste il diritto a vincere il primo Nobel, certamente non esiste un “diritto ad adottare”, poiché l’essere ammessi a questa scelta non può essere considerato come una pura e semplice concessione, bensì come l’esercizio di un privilegio che, in quanto tale, non può essere rivendicato se non se ne dimostrano le capacità (…)”

 Corte EDU – sentenza n. 43546/02 del 22 gennaio 2008

(Emmanuelle B. contro Francia)

 

In Italia, dal punto di vista legislativo, l’affidamento familiare e l’adozione sono strumenti di protezione dei minori rigidamente tipizzati. I confini tra i due istituti sono precisi e rigidi: diversi sono i presupposti, diverso l’intinerario , e diversi sono gli effetti giuridici.

L’esistenza nell’ordinamento giuridico italiano di due distinti strumenti, l’affidamento e l’adozione, risponde ad una specifica impostazione per cui l’adozione legittimante costituirebbe l’unica possibile risposta alla situazione di abbandono di un minore (cfr. artt. 7 e 8 l. n. 184 del 1983) e solo un abbandono completo e definitivo giustificherebbe l’adozione del minore (artt. 2 e 8 l. n. 184 del 1983).

Le legislazioni dei Paesi di matrice culturale europea individuano oggi nell’affidamento familiare il principale strumento di politica sociale per la protezione dei minorenni che non possano, nel loro esclusivo interesse, crescere nella propria famiglia di origine .

Sia l’affidamento familiare, sia l’adozione, riconoscono alla famiglia il ruolo di essenziale risorsa sociale per la protezione dei minorenni in difficoltà , coniugando, così, l’intervento assistenziale pubblico con la solidarietà della società civile. Essi collocano, infatti, il minore che non possa nel suo interesse crescere nella famiglia di origine al di fuori di essa, ma in un ambiente altrettanto familiare (almeno in senso lato).

Tutto ciò discende dalla accennata consapevolezza che il diritto di un minore ad una famiglia derivi proprio dalla centralità di questa istituzione, “nucleo fondamentale della società ed ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei bambini e per il loro pieno ed armonioso sviluppo della loro personalità”, come si trova affermato nella Convenzione delle Nazioni Unite del 1950 sui diritti dell’infanzia.

In verità, con l’affidamento, le famiglie del minore sono due: quella biologica naturale, con la quale quest’ultimo mantiene, almeno tendenzialmente, lungo tutto il periodo del collocamento extrafamiliare, rapporti giuridici e di fatto, e all’interno della quale vi farà ritorno, non appena terminato il periodo di affido; e, quella affidataria che accoglierà il minore durante la sua permanenza al di fuori della famiglia di origine.

Il rischio però è che il minore si trovi a vivere una condizione di doppia appartenenza, che potrebbe fisiologicamente condurlo a porsi questioni relative alla sua identità personale, familiare, sociale e talvolta, potrebbero verificarsi “conflitti” tra i due nuclei familiari.

Ebbene, questo “doppio” sistema (che vede protagonisti l’adozione da una parte e l’affidamento dall’altro), che pure poteva essere condiviso al momento dell’entrata in vigore della legge n. 184 del 1983, quando la maggior parte dei casi di abbandono era “conclamato”, derivando essenzialmente dall’atteggiamento omissivo dei genitori, e l’adozione legittimante rappresentava l’unica soluzione per il minore, non è oggi altrettanto condivisibile.

A tal proposito, la Corte EDU, nell’interpretazione della Convenzione Europea di Salvaguardia dei Diritti Dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (CEDU), in materia di diritto di famiglia, ha più volte evidenziato come l’elemento maggiormente controverso di tutta la vicenda adottiva, consiste proprio nell’allontanamento del figlio dal nucleo familiare di origine, cioè l’affidamento extrafamiliare: esso, infatti, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, comporta un’ingerenza nel diritto al rispetto della vita familiare del genitore e del figlio poiché ostacola il godimento da parte di entrambi della reciproca compagnia, che costituisce un elemento fondamentale della vita familiare garantito dall’art. 8 CEDU . In quest’ottica la consolidata giurisprudenza europea afferma che, per essere conforme alla CEDU, l’affidamento extrafamiliare deve essere realizzato in casi, tempi e modi tali da comportare, anche dopo l’allontanamento del minorenne dal nucleo familiare di origine, la minor ingerenza possibile nella vita familiare del genitore e del figlio.

Anzi, anche dopo l’affidamento extrafamiliare deve permanere una “vita familiare” tra genitore naturale e figlio. Il mantenimento di tali rapporti, favorisce il reinserimento del minore nella famiglia di origine, che dovrebbe costituire il fine ultimo  dell’affidamento  medesimo, ed evitare allo stesso tempo, che si consolidino situazioni di fatto che finiscano col renderlo nella pratica difficile, se non impossibile.

I rapporti di fatto tra genitori e figli in affidamento extrafamiliare possono essere interrotti o sospesi soltanto per ragioni “pertinenti e sufficienti”, tenuto conto del superiore interesse del minore , quando cioè essi possano rappresentare un pregiudizio per i minori. Si tratta, tuttavia, di casi eccezionali.

A sostegno di un simile assunto, la Corte di Strasburgo ha elaborato alcuni principi, che coinvolgono importanti garanzie sostanziali e procedurali. Tra le garanzie sostanziali vi è, ad esempio, la necessità di individuare ragioni consistenti ed idonee a giustificare, nell’interesse del figlio minore, l’adozione di una misura che comporti la sua separazione dal genitore; la rigorosa temporaneità dell’allontanamento; l’esigenza di assicurare il mantenimento di rapporti di fatto tra il genitore e il figlio durante l’allontanamento. Tra le garanzie processuali, invece,  l’ascolto e il rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa dei genitori nel procedimento volto alla valutazione dell’esercizio della potestà; la ragionevole durata del procedimento; la necessaria vigilanza dell’autorità giudiziaria nell’esecuzione del provvedimento .

Ebbene, tutti i Paesi di matrice culturale europea, ivi compresa l’Italia, riconoscono e al tempo stesso, prevedono la necessità del mantenimento dei rapporti di fatto durante l’affidamento tra il minore e i familiari con cui egli avesse rapporti affettivi significativi precedenti al collocamento extrafamiliare. Tutte le legislazioni concordano, inoltre, nel ritenere che i contatti debbano essere sospesi qualora da essi derivi un pregiudizio, anche solo potenziale, per il minore.

Per quanto concerne l’Italia, l’obbligo non solo di mantenere, ma anche di agevolare i rapporti di fatto tra minore e famiglia di origine durante l’affidamento rappresenta la logica conseguenza di quell’accennata impostazione legislativa che vorrebbe l’affidamento familiare necessariamente preordinato al ritorno del minore presso i genitori naturali, una volta compiutosi quel “programma” di sostegno e recupero del nucleo di origine, curato dai Servizi socio-assistenziali territoriali.

È infatti, previsto che il provvedimento di affidamento indichi “le modalità attraverso le quali i genitori e gli altri componenti del nucleo familiare possano mantenere contatti con il minore” (art. 4, comma 3, l. n. 184 del 1983); sarà, poi, compito dei Servizi sociali “agevolare i rapporti con la famiglia di provenienza ed il rientro nella stessa del minore secondo le modalità più idonee” (art. 5, comma 2, l. n. 184 del 1983); gli affidatari debbono tener conto delle “indicazioni dei genitori” che non siano stati dichiarati decaduti dalla potestà, o la cui potestà non sia stata dichiarata limitata (art. 5, comma 1, l. n. 184 del 1983).

Come si evince chiaramente dall’art. 315 c.c. bis che, a sua volta evoca il dettato costituzionale dell’art. 30 Cost., comma 3, nonché dall’art. 147 c.c.,: il minore ha il diritto di crescere ed essere educato nella propria famiglia e di mantenere rapporti significativi con i propri parenti , che rafforza il significato della tutela della persona minore di età nell’esigenza naturale di evitare quanto possibile il ricorso all’adozione, ove ne ricorressero, comunque, le condizioni.

Ciononostante, nella prassi (italiana e non solo) si registra un elevatissimo numero di casi ove i contatti tra minore e famiglia di origine, durante l’affidamento extrafamiliare, sono resi estremamente difficoltosi. Talvolta, le limitazioni possono essere il frutto di “ostacoli” di carattere organizzativo e burocratico, o altre volte, possono dipendere da valutazioni degli operatori dei Servizi completamente divergenti da quelle dell’autorità giudiziaria che tali contatti abbia, invece, disposto.

Non solo. L’analisi delle statistiche relative alla durata e all’esito dell’affidamento familiare dimostra  (questa volta limitatamente al caso italiano) che nella maggioranza dei casi, l’affidamento non si conclude con il rientro del minore nel nucleo familiare, e che comunque, indipendentemente dal ritorno o meno del minore nella famiglia di origine, esso dura ben più del termine di ventiquattro mesi stabilito per legge:

Se, poi, si analizza il diritto vivente italiano (ossia la prassi delle adozioni e degli affidamenti), i confini dell’affidamento e dell’adozione stanno progressivamente sfumando.

Al contrario, diventa sempre più evidente la discrepanza tra dato normativo (e dunque, in primo luogo, la l. 4 maggio 1983 n. 184) e la prassi operativa (giurisprudenza e prassi amministrativa) in merito all’utilizzo dei due strumenti di protezione dei minori in difficoltà.

In un simile contesto, gli operatori giuridici affannosamente cercano di disciplinare quelle situazioni “limite” in cui cui non è possibile far ricorso, per motivi di fatto o di diritto, né all’adozione legittimante, che presuppone l’abbandono completo e definitivo e comporta una definitiva cesura con la famiglia di origine, né all’affidamento familiare, che presuppone un giudizio prognostico favorevole al (ri) acquisto da parte dei genitori della piena capacità genitoriale.

Rilevano, perciò, tutte quelle vicende ove, ad esempio, sebbene si accerti che la famiglia d’origine del minore sia insufficiente — anche solo parzialmente — a soddisfare i suoi bisogni, tuttavia svolge un ruolo ancora attivo che non appare opportuno cancellare totalmente; (operazione – certo- non semplice in quanto richiede di operare una opportuna verifica prognostica circa la la ragionevole possibilità di un miglioramento nel futuro delle capacità della famiglia, tale da renderla idonea a svolgere il suo complesso ruolo educativo, anche con aiuti esterni, curati dal Servizio sociale territoriale).

Ebbene, è proprio in questa congerie complessa e variegata di “vicende familiari” che si inseriscono gli innumerevoli tentativi degli operatori giuridici di tessere tra le intricate maglie del diritto testuale, strumenti “ibridi”, a metà strada, tra l’adozione e l’affidamento familiare.

Al tal proposito è stato proprio il Tribunale per i minorenni di Bari[1], ad intravedere la possibilità – sotto forma di sperimentazione – di una applicazione estensiva del dettato normativo contenuto nell’art. 44, comma 1, lett. d) l. 184/1983 (adozioni in casi particolari): la c.d. adozione “mite”.

Si tratta, di un istituto non previsto e disciplinato in modo esplicito dalla legge, ma frutto di un lavoro di esegesi interpretativa della giurisprudenza.

Il Tribunale di Bari, che per primo ha delineato questa nuova forma di adozione pur nel rispetto della normativa vigente, anzi applicandola e conformandola al caso di specie, valutato che tra il minore e gli affidatari si era instaurato un solido rapporto affettivo tale che l’allontanamento si sarebbe manifestato pregiudizievole per l’equilibrio del minore, ha dichiarato lo stato di semi abbandono permanente. Con esso e in forza dello stesso, non viene interrotto il rapporto di filiazione tra minore e genitore naturale, ma se ne aggiunge un altro, che si sostanzia per l’appunto, nella relazione con i genitori affidatari-adottanti.

In questi casi, si è ritenuto opportuno, non privare il minore del legame relazionale con la sua famiglia di origine, seppure, al tempo stesso, appariva doveroso offrirgli una prospettiva migliore di vita, in considerazione della impossibilità di soddisfare le sue esigenze educative con la propria famiglia di origine.

Da un punto di vista giuridico, l’adozione “mite” viene qualificata una variante dell’adozione in casi particolari, alla quale si avvicina più di ogni altro istituto.

L’aggettivo “mite”, starebbe perciò ad identificare quella specifica concordia e collaborazione fra tutti i soggetti coinvolti nella vicenda, in particolare, fra il minore e la famiglia di origine e fra quest’ultima e la famiglia adottiva, per garantire ai medesimi una continuità affettiva e relazionale, in assenza di contrasti e dissidi, e soprattutto evitando il più possibile traumi irreversibili sul minore che, al contrario si verificherebbero laddove quest’utlimo fosse distaccato in maniera netta e definitiva sia dalla famiglia affidataria nei confronti della quale risulti maturato il termine di affidamento, sia dalla famiglia di origine.

Sulla scorta di queste premesse, il Tribunale di Bari ha ritenuto di poter procedere all’adozione del minore, anche al di furori ed in mancanza, delle condizioni previste dall’art. 7 l. 184/1983 , e cioè in tutti quei casi in cui l’abbandono morale e materiale non sia di rilevanza tale da far procedere con la dichiarazione di adottabilità.

Ma quali sono le divergenze reali rispetto alla adozione tradizionale?

Se da una parte l’adozione legittimante è irrevocabile e crea uno status definitivo, quella in casi particolari consentirebbe, ove necessario e alle condizioni tassative previste, la possibilità di scioglimento del rapporto. Peraltro, ai sensi dell’art. 44, comma 3, nei casi di cui alla lett. a), c) e d), l’adozione così intesa, è consentita anche a chi non è coniugato.

È inoltre necessario al fine di ottenere un provvedimento di adozione “mite”, che la famiglia adottiva dichiari, attraverso uno specifico modulo, la propria disponibilità a modificare la qualità del rapporto, già da tempo esistente con il minore, da affidamento familiare in adozione particolare, e tale requisito formale è previsto in coerenza con l’impostazione essenzialmente volontaristica cui è improntata l’adozione mite, dalla quale consegue la possibilità per il minore di mantenere il proprio cognome, anteponendolo o aggiungendolo a quello dell’adottante .

Ebbene, se queste sono le premesse, non può sottacersi delle numerose critiche e perplessità avanzate in punto. Prime tra tutte la dottrina, poi a far seguito, la Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie (ANFAA). Entrambe prendono le distanze da una simile impostazione.

La verità è che, come è possibile immaginare, in materia di adozione, ogni vicenda, ogni situazione personale e familiare presenta una fisionomia propria e al tempo stesso esclusiva, si richiede, pertanto che ogni elemento della stessa sia accuratamente studiato e valutato.

L’applicazione dell’art. 44, comma 1, lett. d), inoltre, non sarebbe convincente né tanto meno ammissibile per una semplice ragione: l’adozione così come disciplinata dal citato articolo 44, si pone all’interno del quadro normativo, come ipotesi residuale e marginale, posto che sia la legge 184/1983, sia la riforma di cui alla l. n. 149/2001 hanno inteso qualificare l’adozione come uno strumento di tutela del minore solo come ultima ratio, e garantire l’identità personale del minore in senso univoco, preferibilmente con l’attribuzione del cognome della famiglia che adotta secondo la formula “legittimante”, mediante la conseguente attribuzione dello status di figlio legittimo.

Peraltro, le situazioni di “carenza familiare” parziali, e tuttavia permanenti, non sono neppure contemplate dalla legge vigente e la l. n. 149/2001 non ha neanche preso in considerazione tale problematica. Manca dunque, un espresso richiamo all’adozione c.d. mite e/o al semi abbandono, figura, assolutamente sconosciuta dal nostro sistema.

Non solo. Ma il frequente ricorso alla prassi dell’adozione “mite” finirebbe, poi, con il limitare l’applicazione dell’istituto dell’adozione legittimante, e il rischio concreto, sarebbe quello di allontanare in via definitiva il minore dalla propria famiglia naturale, pur non essendo dichiarato in stato di abbandono totale, famiglia con la quale, peraltro, può mantenere rapporti affettivi e giuridico-successori: ciò non escluderebbe il rischio di un probabile doppio binario di modelli educativi.

Affermati studi di psicologia dell’età evolutiva hanno posto in evidenza il rischio, molto concreto, che sui minori adottati, pur piccolissimi o appena nati, graverà sempre il senso dell’“abbandono” da parte dei genitori di nascita, indipendentemente dalle ragioni che hanno motivato tale dolorosa condizione.

Se questo è vero, esiste anche un rovescio della medaglia.

Come riportato dagli ormai noti dati statistici in materia, e come anche le competenti Commissioni parlamentari rinconoscono, è elevato il numero di casi non immediatamente riconducibili a quelli disciplinati in via espressa dalla legge vigente. L’esigenza di una disciplina normativa in materia è senza dubbio, necessaria ed urgente!

È pur vero, però, che utilizzare l’art. 44, comma 1, lett. d) della l. 184/1983, come soluzione al problema non è del tutto condivisibile. L’art. 44, infatti, prevede tra i suoi  presupposti, una condizione molto precisa, ovvero l’“impossibilità di affidamento preadottivo”, affidamento preadottivo che si fonda sulla carenza di “assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio”: non cioè, una situazione di semi abbandono, al quale si fa riferimento come presupposto per rendere operativa l’adozione mite da parte di coloro che, invece, ritengono tale interpretazione adeguata.

Senza considerare poi l’ulteriore difficoltà di individuare in maniera esatta e precisa, il giusto confine tra abbandono e non abbandono o semi abbandono, dovendo il giudice accertare, di volta in volta, se la mancanza di assistenza morale e materiale sia permanente, temporanea, dovuta a causa di forza maggiore, o per scelte personali o colpose del genitore, e verificare se la qualità del rapporto tra genitore e figlio consenta al minore, nel singolo caso di specie, uno sviluppo pieno della sua personalità, oppure sia necessario procedere alla dichiarazione di adottabilità.

È lecito allora, domandarsi – aldilà di qualsivoglia affermazione di principio – se la rilevanza quantitativa del fenomeno dell’utilizzo di valvole di sfogo previste dall’ordinamento in materia di affidamento e adozione non sia forse il sintomo che siamo di fronte ad un uso distorto dei due istituti? E se questo fosse vero, non si dovrebbe allora dire che l’’inadeguatezza risieda in impianto legislativo carente e fallace?

Ma allora, non è forse corretto ricorrere a forme di adozione “alternativa” e perché no, anche ricorrere, in via di sperimentazione, alla c.d. adozione mite (art. 44 l. 184/1983) almeno fino al momento in cui il legislatore non intervenga in modo chiaro ed ufficiale sulla problematica in questione?

La verità è che la realtà è assai più complessa, e neanche la più esaustiva delle previsioni normative potrebbe risolvere, posto che qui vi è in gioco la necessità di aiutare un minore a realizzare concretamente il suo progetto di crescita.

 Avv. Sabrina Caporale

Note
[1] TRIBUNALE DEI MINORENNI DI BARI, 7 maggio 2008 – Pres. e Rel. Occhiogrosso
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