Per affermare la responsabilità dell’agente in ordine al reato di guida sotto l’effetto di stupefacenti è necessario provare, anche con accertamenti sintomatici, la presenza dello stato di alterazione al momento della guida
La vicenda
All’esito di giudizio abbreviato, il Tribunale di Lucca condannava l’imputata alla pena di sei mesi di arresto e 2000,00 euro di ammenda con pena sospesa e revoca della patente in ordine al reato di guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.
Da quanto accertato, la donna si era messa alla guida di un’autovettura di proprietà di terzi, sotto l’effetto di sostanze stupefacenti (di tipo cannabis 300 n/1, superiore in misura notevole rispetto al limite di 50 ng/l ) con l’aggravante di aver provocato un incidente stradale.
La Corte d’Appello di Firenze confermava la decisione e la vicenda è approdata in Cassazione.
Il ricorso per Cassazione
A detta della ricorrente i giudici dell’appello avevano mal interpretato l’art. 187 C.d.S., fondando il giudizio di responsabilità a suo carico su un ragionamento illogico, l’aver cioè tratto la prova della recente assunzione e dello stato di alterazione psicofisica dall’entità dei valori emersi dall’accertamento sui liquidi biologici nonché dalla dinamica dell’incidente. Ciò in quanto “la positività delle analisi – a detta della difesa – alle sostanze stupefacenti fornisce piena prova di un uso pregresso di sostanze e non anche del mantenimento del loro effetto al momento della guida.
L’analisi chimica non può pertanto costituire, da sola elemento idoneo ex art. 187 C.d.S., in quanto le tracce di sostanze stupefacenti permangono molte ore dopo l’assunzione, quando l’effetto drogate è cessato”.
Al riguardo la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, unitamente all’accertamento biologico deve esserci necessariamente anche una valutazione sintomatica della persona, atta a stabilire che in quel momento fosse ancora in atto l’effetto drogante dello stupefacente.
Unitamente agli esami di laboratorio che appurino la presenza di droga nell’organismo, per poter validamente contestare il reato de quo è, dunque, imprescindibile che gli agenti verbalizzanti o i medici dell’ospedale descrivano i sintomi (euforia, sonnolenza, eccessiva loquacità, pupille dilatate ecc.) ricollegabili alla precedente assunzione di sostanze stupefacenti. Ma nel caso in esame, al momento dell’arrivo sul luogo dell’incidente degli agenti verbalizzanti, l’imputata era già stata trasportata presso il Pronto Soccorso per ricevere le prime cure. Non vi era stato, dunque, un immediato riscontro in ordine alla sussistenza dell’alterazione psicofisica tale da inibire una sicura conduzione dell’autovettura.
Il giudizio di legittimità
La Corte di Cassazione (Quarta Sezione Penale, sentenza n. 49178/2019) ha accolto il motivo, ritenendo sussistente il lamentato vizio motivazionale della sentenza impugnata in ordine alla prova che l’imputata guidasse in stato di alterazione psicofisica al momento dell’incidente.
La giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che la condotta tipica del reato previsto dall’art. 187 C.d.S., non è quella di chi guida dopo aver assunto sostanze stupefacenti, bensì quella di colui che guida in stato d’alterazione psicofisica determinato da tale assunzione.
Perché possa dunque affermarsi la responsabilità dell’agente non è sufficiente provare che questi prima di mettersi alla guida aveva assunto stupefacenti, essendo piuttosto necessario dimostrare che egli guidava in stato d’alterazione causato da tale assunzione.
«Se infatti, per affermare la sussistenza della guida in stato di ebbrezza alcolica è sufficiente, che vi sia una prova dell’ebbrezza, nel senso che il conducente del veicolo abbia superato uno dei tassi alcoolemici indicati nell’art. 186 C.d.S., comma 2, per affermare la sussistenza della contravvenzione di cui all’art. 187 è necessario sia un accertamento tecnico-biologico, attraverso cui provare la situazione di alterazione psicofisica, sia che altre circostanze provino la situazione di alterazione psicofisica» (Sez. 4, n. 7270 del 10/11/2009).
In particolare, si, è ritenuto che lo stato di alterazione del conducente non debba essere necessariamente accertato attraverso l’espletamento di una specifica analisi medica, ben potendo essere utilizzate anche le dichiarazioni rese agli agenti verbalizzanti o ai medici dal conducente (così Sez. 4, Sentenza n. 7270 del 10/11/2009).
La decisione
Nel caso in esame, i giudici di merito pur avendo fornito una congrua motivazione sulla pregressa assunzione di sostanze stupefacenti da parte della imputata, avevano omesso di supportare tale accertamento con il rilievo di evidenze obiettive idonee a fornire adeguate indicazioni circa il riflesso, sulle sue condizioni psico-fisiche al momento dell’incidente.
Per niente soddisfacente, in tal senso, era stata, poi, l’affermazione della Corte territoriale secondo cui “la stessa dinamica dell’incidente e i suoi esiti erano indicativi delle gravi alterazioni percettive e della grossolana disattenzione alla guida da parte del conducente“.
Secondo i principi più volte ricordati dalla Suprema Corte di legittimità, lo stato di alterazione non può evincersi dal fatto che si sia realizzato un incidente, che ben potrebbe essere ricondotto ad altre cause, ma deve riguardare una situazione soggettiva dell’imputato, constatata nelle immediatezza dello stesso.
Per tutte queste ragioni il ricorso è stato accolto e la sentenza cassata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Firenze per nuovo giudizio.
Avv. Sabrina Caporale
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