“Plus semper in se continet quod est minus”: come il più contiene il meno il consenso informato contiene l’informazione in sè, e l’attività del sanitario è legittima solo se alla sua volontà di effettuarla si congiunge la volontà informata del paziente

La Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi nuovamente in materia di consenso informato, affermando che il dovere del sanitario di informareil paziente è obbligo prodromico ad ogni attività medica.

La vicenda

Con atto di citazione due coniugi convennero davanti al Tribunale di Torino il medico ginecologo incaricato di seguire l’attrice nella gravidanza, chiedendo l’accertamento del suo inadempimento contrattuale e la sua condanna al risarcimento dei danni per la mancata diagnosi di una grave malformazione cardiaca del feto e la mancata considerazione degli esiti del c.d. tri-test, che aveva segnalato un rischio superiore al normale di sindrome di Down; tale condanna era stata chiesta avendo l’inadempimento del ginecologo impedito alla donna di esercitare il suo diritto di interruzione volontaria di gravidanza.

L’interessante questione posta all’attenzione della Suprema Corte è incentrata sull’asserto secondo cui il medico che non da al paziente le informazioni relative a tutte le esistenti possibilità diagnostiche sarebbe inadempiente sotto il profilo contrattuale.

Attività sanitaria e diritto al consenso informato

L’attività sanitaria, come ormai da tempo è giunta a chiarire la giurisprudenza di questa Suprema Corte sulla scorta di evidenti dati normativi, include sempre un obbligo di informazione, rispetto al quale – tranne specifiche eccezioni – non possono essere indipendenti nè l’attività diagnostica, nè l’attività terapeutico-chirurgica.

Di tutte le attività professionali, quella sanitaria è l’attività che più direttamente incide sulla persona. Se in alta percentuale l’attività professionale opera su un bene altrui, l’attività del sanitario si effettua direttamente su quell’intimo bene della persona che è costituito dal suo corpo.

Essendo allora il corpo il bene maggiormente “esclusivo” di un’altra persona rispetto al professionista, l’attività deve essere disposta e determinata tramite la sintonizzazione di due volontà: quella del sanitario e quella del “paziente”, rectius del soggetto sul cui corpo l’attività si espleta.

Il diritto all’autodeterminazione del paziente

La volontà del sanitario, in quanto tale, deve essere diretta alla tutela della salute di questo soggetto; e la volontà di quest’ultimo deve essere l’espressione della sua libertà, che in questo settore viene ordinariamente definita diritto di autodeterminazione, il cui corretto esercizio costituisce d’altronde il presupposto della legittimità dell’attività professionale sanitaria, cioè dell’esercizio della volontà, per così dire, tecnica del professionista sul corpo di chi, in questo senso, si autodetermina.

Questo principio della necessità della consapevole (cioè informata) volontà del paziente quale elemento integrante e legittimante l’attività sanitaria al di fuori delle eccezioni menzionate, da tempo estratto, oltre che dall’art. 32, proprio dall’art. 13 Cost., è ormai inequivocamente sancito (si rileva per completezza, non essendo ratione temporis applicabile) anche a livello di legge ordinaria, mediante la L. 22 dicembre 2017, n. 219, art. 1.

L’art. 1, appunto, rubricato “Consenso informato”, non solo, infatti, al comma 1 dichiara di tutelare “il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona” e stabilisce che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”, ma nel comma 2 descrive pure quella fattispecie a formazione progressiva che ormai è divenuta l’attività sanitaria: “E’ promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”, nei successivi commi configurando il diritto all’informazione e il diritto alla rinuncia dei trattamenti proposti.

L’interpretazione giurisprudenziale

L’attenzione al “consenso informato” si è sviluppata ampiamente, ben prima della L. n. 219 del 2017, nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, evincendo appunto un concetto di status informativo quale presupposto della legittimante volontà del “paziente”, dapprima come finalizzato alla scelta della cura, chirurgica o meno, ma poi focalizzato anche sul profilo dell’esito dell’attività prodromica alla cura, ovvero dell’attività diagnostica.

La Corte di Cassazione ha infatti affermato che “nell’attività sanitaria, sia di diagnosi, sia di cura, è incluso l’obbligo informativo, il cui inadempimento lede comunque il diritto a esercitare la propria volontà di per sè – in questo settore denominato diritto di autodeterminazione – e inoltre, a seconda del plus mancante nella informazione, può anche condurre alla lesione del diritto alla salute”.

Non è pertanto sostenibile distinguere tra diagnosi e informazione. Informare il paziente “ovvero suscitare la consapevole volontà della persona, sul cui corpo si svolge l’attività sanitaria, è l’obbligo prodromico ad ogni attività sanitaria: il tradizionale “consenso informato” contiene, come il più contiene il meno, l’informazione in sè, e l’attività del sanitario è legittima (a parte le eccezioni) solo se alla sua volontà di effettuarla si congiunge la volontà informata della persona sul cui corpo si dovrebbe effettuarla. La scelta diagnostica o terapeutica -del sanitario, come prospettata all’altro soggetto coinvolto, manifesta la sua autonomia professionale (non a caso espressamente confermata come sussistente dalla L. n. 219 del 2017, art. 1, comma 2), che però non è assoluta: il sanitario, nel momento in cui la sua scelta prospetta, deve informare compiutamente non solo il contenuto di essa, ma altresì le “mosse” alternative e il loro contenuto. Se ciò non avviene, il sanitario si rende responsabile, sul campo contrattuale, di un evidente inadempimento, mentre nel campo extracontrattuale viola, come si è visto, diritti di costituzionale valore.

Il principio di diritto

Alla luce di tali osservazioni i giudici della Terza Sezione Civile della Cassazione (sentenza n. 29709/2019) hanno affermato il seguente principio di diritto: “i/ sanitario, al di fuori delle eccezioni previste dall’ordinamento (intervento urgente senza possibilità di informare alcuno, neppure incaricato dalla persona che ne ha necessità o comunque ad essa prossimo; casi specifici stabiliti dalla legge ai sensi dell’art. 32 Cost., comma 2), ha sempre l’obbligo di informare, in modo completo e adeguato, la persona su cui si appresta ad espletare la sua attività sanitaria o su cui già l’ha esercitata – sia in forma diagnostica che in forma terapeutica -, in quest’ultima ipotesi dovendo rappresentarle le possibili conseguenze e le possibili prosecuzioni di attività diagnostica e/o terapeutica; obbligo che, pertanto, non può essere mai scisso dall’obbligo di espletare correttamente l’attività sanitaria in senso tecnico, per cui il sanitario che ha espletato in modo corretto la sua attività sanitaria in senso tecnico ma non ha fornito l’adeguata informazione alla persona interessata è sempre inadempiente nella responsabilità contrattuale, mentre in quella extracontrattuale viola sempre il diritto costituzionale di autodeterminazione, limite della sua autonomia professionale”.

La redazione giuridica

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