Sono stati ritenuti vittime di “violenza assistita” due minori costretti a vivere in un clima di violenza, paura e continua tensione derivante dal fatto di dover assistere, quali spettatori passivi, alle violente dispute intercorse fra i genitori coimputati, pur senza essere mai oggetto di aggressioni o soprusi né di violenza psicologica

La vicenda

La Corte d’appello di Firenze aveva condannato l’imputato in ordine al delitto di maltrattamenti in danno dei due figli minori, commessa in concorso col convivente.

Per la Cassazione della sentenza ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, chiedendo l’annullamento della sentenza per violazione della legge penale in relazione alla ritenuta integrazione del reato di cui all’art. 572 cod. pen.

A sostegno del ricorso la difesa evidenziava come, secondo la ricostruzione operata dei giudici della cognizione, i maltrattamenti sarebbero consistiti nell’aver costretto i figli minori a vivere in un clima di violenza, paura e continua tensione derivante dal fatto di dover assistere, quali spettatori passivi, alle violente dispute intercorse fra i genitori coimputati, senza tuttavia essere mai direttamente oggetto di aggressioni o soprusi né di violenza psicologica, come comprovato dal fatto che – come emerso dalla consulenza tecnica del P.M. le presunte vittime non avevano manifestato alcun segno di disagio familiare.

Il ricorso è stato accolto per le ragioni di seguito esposte.

La decisione del ricorso ruota intorno alla configurabilità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen. nel caso in cui la condotta in ipotesi maltrattante non si sia tradotta in comportamenti vessatori – fisici e/o psicologici – rivolti direttamente verso la vittima, ma si sostanzi nel far assistere quest’ultima, quale spettatore passivo, alle condotte violente e offensive attuate nei confronti di altra persona (c.d. violenza assistita). In particolare, avendo riguardo al caso in esame, se il reato di maltrattamenti in famiglia possa ritenersi integrato dalla condotta serbata dai genitori nei confronti dei loro figli minori (giusta contestazione) “per averli costretti a presenziare alle reiterate manifestazioni di reciproca conflittualità realizzate nell’ambito del rapporto di convivenza (….) mediante ripetuti episodi di aggressività fisica e psicologica, con condotte vessatorie e continui litigi, minacce e danneggiamenti di suppellettili, loro violente liti”.

Al riguardo, la Corte d’appello fiorentina aveva ritenuto che i figli dei due coimputati, sia pure non direttamente investiti dalle violenze e dai soprusi che avevano reciprocamente coinvolto i loro genitori, erano stati vittime di “violenza assistita”, in quanto costretti dai genitori ad assistere passivamente alle loro feroci dispute, sebbene – come dato conto dal consulente tecnico del P.M. – essi non avevano manifestato segnali di disagio familiare, circostanza – quest’ultima – stimata adeguatamente spiegabile con il periodo relativamente breve oggetto delle condotte contestate e con il fatto che “talune forme di imbarazzo” possono non essere state percepite dal consulente.

Il reato di maltrattamenti in famiglia

In linea generale, il reato di maltrattamenti è un reato contro la famiglia (precisamente contro l’assistenza familiare) e come il suo oggetto giuridico sia costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e delle persone facenti parte della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica (Sez. 6 del 24/11/2011 n. 24575).

In ossequio alla ratio ed al bene giuridico protetto, il raggio di copertura dell’incriminazione non può, pertanto, non estendersi a comprendere tutti i soggetti che facciano parte della sfera familiare (compresi i figli) e che possano subire un pregiudizio alla propria integrità psico-fisica a cagione dei comportamenti aggressivi maturati in detto contesto.

D’altra parte, lo stesso legislatore ha utilizzato una espressione verbale (condotta di chi “maltratta”,) all’evidenza ampia (tanto da risultare, ad avviso di taluna dottrina, indeterminata), nell’ambito della quale possono farvi rientrare non soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali (Sez. 6, n. 44700 del 08/10/2013), potendo il reato essere difatti integrato anche mediante il compimento di atti che, di per sè, non costituiscono reato (Sez. 6, n. 13422 del 10/03/2016).

ll reato secondo la giurisprudenza

Da ciò discende – hanno aggiunto gli Ermellini – che la condotta sanzionata dall’art. 572 cod. pen. non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può realizzarsi tanto con un’azione, quanto con un’omissione, e può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere del soggetto attivo (Sez. 5 del 22/10/2010 n. 41142; Sez. 6 del 21/12/2009, n. 8592).

Su questa linea, questa Corte ha affermato che il delitto di maltrattamenti può essere integrato anche da comportamenti vessatori che si protraggano per un lasso di tempo limitato, a condizione che ciò sia utile alla realizzazione della ripetizione di atti vessatori idonea a determinare la sofferenza fisica o morale continuativa della parte offesa (Sez. 6, n. 1999 del 09/12/1992).

In altri termini, si è detto che non è necessario un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto perchè il reato è caratterizzato da un’unità significante costituita da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo: cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze (Sez. 6, n. 24727 del 27/04/2015.

L’elemento soggettivo del reato

Deve dunque escludersi che la compromissione del bene protetto si verifichi in presenza di semplici fatti che ledono ovvero mettono in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, essendo necessario, per la configurabilità del reato, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile (Sez. 6, n. 27/05/2003, Caruso, Rv. 226794).

È stato inoltre, rammentato come il reato di maltrattamenti richieda non un dolo intenzionale – inteso quale perseguimento dell’evento (sofferenza della vittima) come scopo finale dell’azione -, ma soltanto il dolo generico consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la persona di famiglia ad un’abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza (Sez. 6, n. 15680 del 28/03/2012).

La violenza assistita

Tanto premesso, la Sesta Sezione Penale della Cassazione (sentenza n. 18833/2019) ha affermato che il delitto di maltrattamenti può essere configurato anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti direttamente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano (solo) indirettamente quali involontari spettatori delle feroci liti e dei brutali scontri fra i genitori che si svolgano all’interno delle mura domestiche, cioè allorquando essi siano vittime di c.d. violenza assistita. La condotta di chi costringa minore, suo malgrado, a presenziare – quale mero testimone – alle manifestazioni di violenza, fisica o morale, è certamente suscettibile di realizzare un’offesa al bene tutelato dalla norma (la famiglia), potendo comportare gravi ripercussioni negative nei processi di crescita morale e sociale della prole interessata.

Ritiene, nondimeno, il Collegio che il delitto di maltrattamenti scaturente da una condotta riportabile alla c.d. violenza assistita, proprio perchè fondato su di una relazione non diretta, ma indiretta fra il comportamento dell’agente e la vittima – essendo l’azione rivolta a colpire non il minore, ma altri ovvero, come nella specie, connotandosi per la reciprocità delle offese fra i genitori – postula una prova rigorosa che l’agire – in ipotesi – illecito, per un verso, sia connotato dalla c.d. abitualità; per altro verso, sia idoneo ad offendere il bene giuridico protetto dall’incriminazione, id est abbia cagionato secondo un rapporto di causa-effetto – uno stato di sofferenza di natura psicofisica nei minori spettatori passivi.

La decisione

Presupposti obbiettivi imprescindibili della condotta di cui la Corte fiorentina non aveva adeguatamente dato conto, là dove – con una motivazione all’evidenza sommaria ed assertiva – aveva ripreso le conclusioni del consulente tecnico del P.M. secondo cui i bambini, pur non avendo manifestato alcun segno di disagio familiare, dovevano ritenersi “vittime di una forma di violenza assistita” e non aveva verificato se effettivamente il rapporto estremamente conflittuale esistente fra i genitori, cui i figli erano costretti loro malgrado ad assistere, abbia avuto valenza maltrattante e tale da produrre la condizione di afflizione che connota il delitto.

È per questi motivo che la sentenza impugnata è stata annullata per difetto di motivazione. Peraltro, nel frattempo il reato risultava estinto per prescrizione, di tal che la decisione è stata rinviata al giudice civile per la pronuncia circa l’eventuale responsabilità civile scaturente dal delitto.

Avv. Sabrina Caporale

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