L’offesa meramente verbale o, come nel caso di specie, postata su Facebook contro i propri vertici aziendali, ove non sia connotata dal carattere della gravità, non può essere punita con il licenziamento
Il post su Facebook
Col ricorso introduttivo del giudizio, un lavoratore aveva impugnato il licenziamento disciplinare intimatogli dalla società datrice di lavoro per aver postato sul proprio profilo Facebook l’epiteto “che pezzi di m…” in commento a un provvedimento datoriale riguardante altro lavoratore. Chiedeva, pertanto, al Tribunale di Nocera Inferiore, in via principale di ordinare alla convenuta società la sua immediata reintegra nel posto di lavoro precedentemente occupato e la condanna della stessa al pagamento di tutte le retribuzioni maturate e maturande dalla data di licenziamento ai sensi dell’art. 18 l. 300/1970.
Eccepiva, a tal riguardo, la misura ritorsiva/discriminatoria della sanzione espulsiva, in quanto l’unico motivo determinante del licenziamento era – a sua detta – l’esser stato promotore, quale RSU, delle lotte sindacali finalizzate ad evitare la chiusura di uno stabilimento dell’azienda e, in secondo luogo, evidenziava l’insussistenza del fatto contestato, atteso che l’espressione utilizzata, se contestualizzata, non poteva ritenersi né denigratoria né lesiva della buona fede e correttezza del datore di lavoro, ma rientrava appieno nel diritto di critica e di libertà sindacale.
In primo luogo, il Tribunale di Nocera Inferiore (Sezione Lavoro) ha respinto la tesi attorea circa la natura discriminatoria o ritorsiva del licenziamento opposto.
Quanto all’espressione utilizzata dal ricorrente, “per quanto indubbiamente inurbana e inopportuna, oltre che non rispondente al canone di continenza formale che deve connotare il diritto di critica”, essa non è stata ritenuta “in grado di arrecare un significativo pregiudizio all’impresa datoriale, sia sotto l’aspetto organizzativo (tenuto conto delle dimensioni della stessa, con svariati stabilimenti produttivi nel territorio nazionale) che, a maggior ragione, sotto l’aspetto produttivo ed economico”.
Né il fatto contestato è stato risultato di portata tale da minare il decoro della società resistente, essendo il commento postato rilevatore di una creduta ingiustizia subita da un collega di lavoro, e pertanto, privo di un evidente intento offensivo e aggressivo nei confronti dei vertici aziendali. Senza contare che il ricorrente, comunque provato dalle vicende aziendali che lo avevano visto direttamente coinvolto anche sotto l’aspetto di patrono degli interessi sindacali degli altri lavoratori, si era prontamente scusato nelle giustificazioni scritte inoltrate successivamente alla contestazione disciplinare.
La sanzione irrogata era pertanto, a giudizio dell’adito Tribunale “del tutto sproporzionata e i giustamente afflittiva rispetto al fatto oggetto di contestazione”.
La giurisprudenza della Cassazione ha da tempo individuato l’inadempimento idoneo a giustificare il licenziamento in ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali: sicché quel che è veramente decisivo, ai fini della valutazione di proporzionalità tra addebito e sanzione, è l’influenza che su rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.
Spetta dunque al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi, innanzitutto rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed in specie alla sua durata e all’assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia.
La decisione
Da ciò deriva che “l’offesa meramente verbale (a cui può certamente ricondursi per analogia quelle, come quella in esame, proferita in un post su Facebook ai vertici aziendali) ove, come nel caso di specie, non sia connotata dal carattere della gravità, certamente non può essere punita con il licenziamento, mentre può essere sussunta nella norma che prevede le sanzioni conservative, quale che atto che porta un mero pregiudizio morale”.
In definitiva, in applicazione dell’art. 18 comma IV, L. 300/1970, accertata l’assenza della giusta causa, il licenziamento è stato annullato e per l’effetto la società è stata condannata alla reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione, oltre al versamento per detto periodo, dei contributi previdenziali e assistenziali.
La redazione giuridica
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