Non può essere licenziato il lavoratore che contravviene al divieto di fumare durante l’orario di lavoro all’interno dei locali aziendali, se non vi è pericolo per l’incolumità delle persone e per la sicurezza degli impianti

La vicenda

La Corte d’Appello di Genova aveva accolto la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato dalla società datrice di lavoro ad un proprio lavoratore dipendente per aver contravvenuto al divieto di fumare durante l’orario di lavoro, presso un “recondito ambito (intercapedine) dei locali della ditta committente”.

La Corte, circoscritto l’oggetto del licenziamento esclusivamente alla contravvenzione al divieto di fumare, aveva ritenuto che il fatto addebitato al lavoratore, risultato provato, rientrasse nella previsione collegata al mero divieto di fumare dettata dall’art. 47 del CCNL e concernente la sanzione conservativa dell’ammonimento o della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, con conseguente illegittimità del licenziamento ed applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970, modificato dalla legge n. 92/2012.

Per la cassazione della sentenza la società aveva proposto ricorso, denunciando tra gli altri motivi la violazione degli artt. 51 nn. 1 e 2 della legge n. 3 del 2003, 48 B, lett. f) e 47, lett. h) del CCNL di riferimento, avendo la Corte distrettuale trascurato che il divieto di fumare è, per legge, inderogabile e la clausola contrattuale richiede che il pregiudizio all’incolumità delle persone e alla sicurezza degli impianti sia anche solo potenziale.

Ma il motivo è stato dichiarato infondato (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 12841/2020).

La Corte territoriale, condividendo le conclusioni assunte dal Tribunale circa la vigenza del divieto di fumo (a norma di legge e di specifica disposizione adottata dalla ditta committente) in tutto lo stabilimento presso il quale il dipendente era stato assegnato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, aveva valutato, al fine di riempire di contenuto la clausola generale dettata dall’art. 2119 c.c., la scala valoriale del codice disciplinare contenuto nel contratto collettivo applicato in azienda, pervenendo alla conclusione della impossibilità della sussunzione della condotta adottata dal primo nell’art. 48, lett. f), per carenza della situazione di “pericolo per le persone o per gli impianti”.

La Corte distrettuale, valutando sia il profilo soggettivo che quello oggettivo della condotta e in specie la conformazione del luogo ove il lavoratore era stato trovato intento a fumare (zona di intercapedine tra uffici sprovvisto di impianti e persone; assenza di attrezzature pericolose quali bombole contenenti materiale infiammabile; planimetria dello stabilimento), aveva ritenuto di escludere la ricorrenza dei requisiti costitutivi della fattispecie contrattuale punita con la sanzione espulsiva; rilevando, in particolare, che non poteva ritenersi integrato un pericolo alla salute derivante dalla mera combustione di una sigaretta posto che l’infrazione al divieto di fumo in ambienti chiusi previsto dalla legge (art. 51 legge n. 3 del 2003) doveva misurarsi, quanto agli effetti sul rapporto di lavoro, con le due distinte previsioni disciplinari elaborate dalle parti sociali (artt. 47 e 48 CCNL).

Il percorso logico-giuridico seguito dalla sentenza impugnata è stato ritenuto dagli Ermellini corretto e rispettoso dei principi di diritto formulati in materia dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo al codice disciplinare contenuto nei contratto collettivi.

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza.

Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (Cass. n. 2013/20112; Cass. n. 13574, 7948, 5095, 4060/2011).

La giusta causa del licenziamento

In particolare, la giusta causa di licenziamento è nozione legale ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo, onde lo stesso può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, e per altro verso, può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (Cass. n. 4060/2011).

La scala valoriale espressa dal CCNL deve costituire, tuttavia, uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.

In definitiva, il ricorso è stato rigettato.

Avv. Sabrina Caporale

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