Il licenziamento verbale deve considerarsi giuridicamente inesistente e, ai fini della prova, il lavoratore deve provare soltanto la cessazione del rapporto

La vicenda

Il dipendente di una s.r.l. aveva impugnato il licenziamento verbale a lui intimato, chiedendo che ne fosse accertata l’illegittimità, con conseguente condanna della convenuta alla reintegra nel proprio posto di lavoro, con le medesime mansioni e qualifica, ed alla corresponsione di tutto quanto dovutogli a titolo di retribuzioni ed oneri accessori, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, a far data dall’intervenuto licenziamento sino a quella dell’effettiva reintegrazione.

Dagli atti era emerso che il ricorrente fosse stato assunto dalla società convenuta con un contratto di lavoro, part-time, a tempo indeterminato, con mansioni di commesso corrispondente al livello V del C.C.N.L. di categoria, e con periodo di prova iniziale di 15 giorni. La prestazione lavorativa concordata veniva svolta dalle ore 9.00 alle ore 13.00 dal lunedì al sabato, con esclusione della domenica, per un totale di 4 ore giornaliere e 24 ore settimanali per 12 mesi all’anno, mentre la retribuzione era quella prevista per il livello della corrispondente qualifica riferita all’orario di lavoro concordato.

Il licenziamento verbale

La mattina in cui gli era stato intimato il licenziamento verbale, il dipendente si trovava all’interno dei locali del negozio. Mentre riponeva le scatole sugli scaffali, gli si sarebbe avvicinato uno dei soci dell’azienda, dicendogli come doveva sistemare le merci. In quel momento il ricorrente, aveva delle forbici in mano e avrebbe fatto il gesto di allontanarsi in quanto sapeva come doveva comportarsi. La sera stessa l’uomo, socio della s.r.l. gli comunicava verbalmente che non avrebbe dovuto più presentarsi a lavorare nel negozio perché lo aveva aggredito facendogli vedere il foglio della denuncia fatta da lui alla Polizia.

In materia di onere della prova, la Corte di Cassazione (sentenza n. 2835/1995) ha da tempo stabilito che: “la prova gravante sul lavoratore che domandi la reintegrazione nel posto di lavoro è quella della estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione di un fatto che nega il licenziamento e collega la estromissione dal rapporto ad asserite dimissioni del lavoratore assume la valenza di una eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’articolo 2697 c.c., comma 2”.

Questo principio fondato sulla contrapposizione tra “prova della estromissione” gravante sul lavoratore e “prova delle dimissioni” quale eccezione in senso stretto di pertinenza datoriale è stato confermato in numerose sentenze successive (Cass. n. 4717 del 2000; Cass. n. 25847 del 2018).

Si è così affermato che “la prova gravante sul lavoratore – che chieda giudizialmente la declaratoria di illegittimità dell’estinzione del rapporto – riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo cioè la estromissione del lavoratore dal luogo di lavoro”, atteso che il licenziamento “costituisce un atto unilaterale di recesso con cui una parte dichiara all’altra la sua volontà di estinguere il rapporto e che, quindi, non può che essere comprovato da chi abbia manifestato tale volontà di recedere, non potendo la parte (la quale abbia subito il recesso) provare una circostanza attinente alla sfera volitiva del recedente”, per cui “deve confermarsi che l’onere della prova del licenziamento grava sul datore di lavoro” (Cass. n. 10651 del 2005; Cass. n. 2414 del 2004).

All’orientamento che ritiene sufficiente per il lavoratore che impugna il licenziamento orale la prova della “cessazione” del rapporto lavorativo si sono adeguate successive decisioni, con la precisazione che, nell’ipotesi in cui sia pacifico tra le parti il fatto dell’estinzione del rapporto di lavoro a seguito di un licenziamento, controvertendosi solo del quomodo della forma del licenziamento, il datore di lavoro è tenuto a dimostrare i requisiti di forma e di efficacia del licenziamento (Cass. n. 5061 del 2016; Cass. n. 3822 del 2019).

La ripartizione dell’onere della prova

In sostanza, il lavoratore deve dimostrare, con ogni mezzo di prova, comprese le presunzioni, l’esistenza di una “risoluzione a iniziativa datoriale” e cioè che l’allontanamento dall’attività lavorativa non è il frutto di una propria scelta, bensì di una scelta del datore di lavoro, anche se realizzata con comportamenti concludenti.

Alla luce di tali principi, l’adito Tribunale di Roma (sentenza n. 3022/2020) ha accolto il ricorso proposto dal lavoratore, non potendo assumere alcun rilievo le ragioni del licenziamento mai comunicato per iscritto.

Infatti, secondo i principi generali, il rapporto di lavoro prosegue fino all’intervento di una valida ed efficace causa estintiva, quasi sempre costituita dal licenziamento o dalle dimissioni.

Ebbene, nella fattispecie esaminata, era evidente che il ricorrente non avesse mai manifestato alcuna volontà di dimettersi ed aveva invece impugnato il licenziamento verbale con lettera inviata a mezzo pec.

Doveva, allora, ritenersi provata la circostanza che il rapporto di lavoro fosse cessato di fatto necessariamente per precisa volontà del datore di lavoro manifestata espressamente “verbis”, e cioè senza la necessaria forma scritta.

Per quanto concerne le conseguenze del licenziamento verbale, la giurisprudenza della Suprema Corte ha più volte affermato che:” Il licenziamento intimato oralmente deve ritenersi giuridicamente inesistente e come tale, da un lato, non richiede un’impugnazione nel termine di decadenza di cui all’art. 6 della legge n. 604 del 1966, e, dall’altro, non incide sulla continuità del rapporto di lavoro e quindi sul diritto del lavoratore alla retribuzione fino alla riammissione in servizio (Cass., 29 novembre 1996, n. 10697). Tale opzione ermeneutica va mantenuta ferma anche a seguito della riforma del citato art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, per effetto dell’art. 32 della legge n. 183/2010, il quale fissa il dies a quo del termine di sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione del licenziamento “in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anche se in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto anche extragiudiziale …”. Ne consegue che, in caso di licenziamento orale, mancando l’atto scritto da cui il legislatore del 2010, con espressa previsione, fa decorrere il termine di decadenza, il lavoratore può agire per far valere l’inefficacia dei licenziamento senza l’onere della previa impugnativa stragiudiziale del licenziamento stesso” (Cass. n. 22825 del 9/11/2015).

La decisione

Principi che restano validi nel regime di cui alla legge Fornero. In conclusione, se il licenziamento è inefficace perché intimato verbalmente, non importa per quale ragione, il ricorrente ha comunque diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro a prescindere dal c.d. “requisito dimensionale” e a percepire un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, detratto l’aliunde perceptum (nel caso di specie, il ricorrente aveva dichiarato infatti di avere trovato un nuovo lavoro solo a partire dal mese di agosto del 2019), per un complessivo importo in ogni caso non inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro dovrà inoltre, per il medesimo periodo, versare i contributi previdenziali e assistenziali.

Avv. Sabrina Caporale

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