Il reato di corruzione rientra nell’alveo dei c.d. “delitti contro la Pubblica Amministrazione” ed è disciplinato dagli artt. 318 e segg. c.p..

Occorre immediatamente premettere che in materia è intervenuto il Legislatore il quale, mediante la Legge n° 190/2012 (definita, appunto, “Legge anticorruzione”) ha apportato significative modifiche, prevedendo, altresì, un forte inasprimento delle pene.

Un ulteriore intervento Legislativo è stato poi effettuato anche nel 2015, mediante la Legge n° 69/2015 (c.d. “Legge anticorruzione 2015”), la quale ha incrementato i limiti edittali sia minimo che massimo della reclusione.

Ebbene, in ragione della vastità dell’argomento, la cui disamina richiederebbe fiumi di parole, mi limiterò, in questa sede, ad analizzare la differenza che sussiste, oggi, tra la c.d. “corruzione impropria” e la c.d. “corruzione propria”.

Innanzitutto, risulta opportuno immediatamente premettere che la fattispecie di reato della corruzione presuppone da un lato la sussistenza di due soggetti, ossia il corrotto, il quale deve necessariamente ricoprire la qualità di Pubblico Ufficiale, ed il corruttore; dall’altro, l’indebita percezione di denaro ovvero di altra utilità da parte del primo ovvero l’accettazione da parte del medesimo della promessa di denaro o di altra utilità, avanzata dal corruttore.

Dunque, fatta questa breve precisazione, analizziamo, ora, le due sopra citate ipotesi di corruzione.

La corruzione c.d. “impropria” risulta disciplinata dall’art. 318 c.p. e si configura allorquando il Pubblico Ufficiale pone in essere un atto del suo ufficio, dietro la corresponsione di una somma di denaro ovvero di un’altra res; per converso, la corruzione c.d. “propria”, disciplinata dall’art. 319 c.p., si delinea quando il mercimonio ha ad oggetto un atto contrario ai doveri d’ufficio.

In particolare, il delitto p. e p. dall’art. 319 c.p. presuppone da parte del Pubblico Ufficiale l’omissione, ossia il mancato compimento, ovvero il ritardo, ossia il compimento oltre il termine prescritto, di un atto del proprio ufficio oppure il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio, tale quindi da violare l’imparzialità ed il buon andamento della Pubblica Amministrazione.

Orbene, fatta questa breve precisazione di tipo squisitamente teorico, relativa al reato di corruzione, analizziamo, ora, la sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione penale, individuata dal n° 6677/16.

La sopra citata pronuncia di Legittimità riguardava il pactum sceleris raggiunto tra il Presidente della Commissione Medica ed un medico legale; in particolare, il primo avrebbe ricevuto dei soldi da parte del secondo, affinché i pazienti del medico legale conseguissero determinati benefici pensionistici.

In particolare, la Suprema Corte, ha illustrato proprio la differenza che sussiste tra corruzione propria ed impropria, specificando che il sistema ideato dal Presidente e dal medico legale rientrava appieno nell’alveo della corruzione, in quanto i “dottori”, con la loro condotta, avevano inficiato il buon andamento e l’imparzialità della Pubblica Amministrazione.

Concludo con un’ultima riflessione.

La Corte di Cassazione, nella sentenza oggetto della mia breve disamina, è stata investita della decisione di annullare o meno il provvedimento con cui il Tribunale del Riesame confermava l’ordinanza di custodia cautelare in carcere applicata nei confronti del Presidente corrotto, rigettando il ricorso: ergo, il Presidente, alla luce della citata sentenza, dovrebbe trovarsi ancora in carcere.

Fermo restando che chi scrive è pienamente cosciente che il c.d. giudicato cautelare NON è una sentenza di condanna e che il processo penale deve fare il suo integrale corso, spero vivamente che se un’attività illecita vi è stata, la stessa venga accertata e punita, perché concedere un beneficio a chi non ne aveva i requisiti di Legge equivale a negarlo a colui al quale davvero spettava!

 

Avv. Aldo Antonio Montella
(Foro di Napoli)

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