Assolto dal reato di induzione e aiuto al suicidio perché il fatto non sussiste: pubblicate le motivazioni della sentenza Cappato

Con decreto del 18 luglio 2017, Marco Cappato era stato rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Milano per rispondere del reato di induzione e aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p., per aver rafforzato il proposito suicidiario di Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo, e averlo aiutato a porre fine alla sua vita, accompagnandolo in Svizzera, dove il 27.2.2017 si suicidava mediante iniezione di un farmaco letale.

Lo scorso 30 gennaio 2020 sono state pubblicate le motivazioni della sentenza n. 8/2019 della Corte d’Assise di Milano, che ha assolto l’imputato dal reato ascritto perché il fatto non sussiste.

Lo stesso P.M. a conclusione del dibattimento aveva domandato pronuncia di assoluzione per insussistenza del fatto. I difensori di Cappato avevano invece chiesto, uno l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato, l’altro aveva condiviso la formula assolutoria invocata dal P.M. di insussistenza del fatto.

Peraltro, come noto, all’esito dell’istruttoria dibattimentale la Corte d’Assise di Milano aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art 580 c.p., in materia di induzione e aiuto al suicidio, “nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio”.

E la Consulta, dapprima con l’ordinanza del 23.10.2018, e successivamente con la sentenza del 22.11.2019, pronunciandosi sulla questione, ha affermato la non punibilità delle condotte di aiuto al suicidio nel caso in cui venga agevolata “l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi”, di una persona “a) affetta da patologia irreversibile e b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.

La Corte ha quindi indicato nel procedimento dettato dagli art. 1 e 2 della Legge 22 dicembre 2017 n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) le modalità con cui deve essere accertata la ricorrenza di tali condizioni e ha richiesto l’intervento di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale per verificare le modalità di esecuzione del suicidio.

La pronuncia della Consulta

Per quanto riguarda, poi, le condotte intervenute prima della sua pronuncia, la Corte Costituzionale ha affermato la non punibilità dell’aiuto al suicidio nel caso in cui “l’agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee, comunque sia ad offrire garanzie sostanzialmente equivalenti”. Ha richiesto quindi che le condizioni dell’aspirante suicida avessero “formato oggetto di verifica in ambito medico”, che “la volontà dell’interessato fosse stata manifestata in modo chiaro ed univoco, compatibilmente con quanto consentito dalle sue condizioni”, che “il paziente fosse stato informato sia in ordine a queste ultime, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua”.

Peraltro, già nella ordinanza che aveva preceduto la citata sentenza, la Consulta aveva riconosciuto l’esistenza di tutte le condizioni per escludere l’illiceità della condotta di agevolazione, contestata a Marco Cappato nella nota vicenda in esame.

Ed invero, dall’istruttoria era emerso che Cappato fosse intervenuto in un momento anteriore all’esecuzione del suicidio, ma solo dopo che Fabiano Antoniani, “in piena autonomia, con il costante sostegno dei suoi cari e verificata tramite vari medici l’impossibilità di cura della sua malattia, avesse deciso di porre termine alle sue sofferenze incoercibili e quindi alla sua vita”.

Insomma era evidente che l’imputato con la sua condotta non avesse di certo inciso sul processo deliberativo che ha portato al suicidio di dj Fabo.

Era pacifico che Fabiano Antoniani fosse “persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche e psicologiche, che trovava assolutamente intollerabili, in quanto era tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, restando tuttavia capace di prendere decisioni libere e consapevoli. E che tali condizioni avevano “formato oggetto di verifica in ambito medico”.

Altrettanto pacifico era il fatto che Cappato avesse aiutato Fabo a morire, come da lui scelto, solo dopo aver accertato che la sua decisione “fosse stata autonoma e consapevole, che la sua patologia fosse grave e irreversibile e che gli fossero state prospettate correttamente le possibili alternative con modalità idonee ad offrire quelle “garanzie sostanzialmente equivalenti” a cui la Corte Costituzionale ha subordinato l’esclusione della illiceità della condotta.

La redazione giuridica

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