Accolto il ricorso di una donna che chiedeva il risarcimento dei danni per aver contratto l’infezione da epatite C a causa di emotrasfusioni dopo il parto
In occasione del parto, avvenuto nel 1978, veniva sottoposta alla trasfusione di sei sacche di sangue. Nel marzo 2000 le veniva diagnosticata l’infezione da Epatite C che il Ministero della Sanità riconosceva essere dipesa dalla suddetta trasfusione di sangue.
La donna citava quindi in giudizio la struttura sanitaria per sentirla condannare al risarcimento dei danni subiti, quantificati in Euro 250.000,00 o nella diversa somma accertata giudizialmente.
Costituitasi in giudizio, la convenuta eccepiva la non imputabilità a sé di alcun fatto colposo, adducendo che non avrebbe potuto, all’epoca del contagio, adottare i pretesi comportamenti di prevenzione.
In primo grado il Tribunale accoglieva la domanda attorea e condannava l’Ausl a corrispondere all’attrice la somma di Euro 186.678,94, oltre agli interessi legali dalla decisione fino al soddisfo, ed al rimborso delle spese di lite, ritenuto che il nosocomio avesse omesso ogni controllo sul donatore e sulla immunità da virus, non avesse provato la necessità della terapia trasfusionale e non avesse informato la partoriente dei rischi connessi alla stessa.
La Corte d’Appello, in riforma della pronuncia del Giudice di prime cure, rigettava la domanda risarcitoria e compensava tra le parti le spese di lite.
La Corte territoriale accoglieva l’appello sollevato dall’Assessorato regionale alla Salute quanto alla affermata legittimazione passiva del Ministero della Salute, in quanto unica amministrazione competente ad effettuare i controlli sulle sacche di sangue destinate alla trasfusione, perché, secondo la giurisprudenza di legittimità, “in materia di emotrasfusione e contagio da virus HBV, HIV, HCV non risponde per inadempimento la singola struttura ospedaliera che abbia utilizzato sacche di sangue, provenienti dal servizio di immunoematologia trasfusionale della USL, previamente sottoposte ai controlli richiesti dalla normativa dell’epoca, esulando in tal caso dalla diligenza ad essa richiesta il dovere di conoscere ed attuare le misure attestate dalla più alta scienza medica a livello mondiale per evitare la trasmissione del virus, almeno quando non provveda direttamente con un autonomo centro trasfusionale”. Di conseguenza, “la struttura ospedaliera, la quale si impegna a fornire al paziente una prestazione articolata, definita genericamente ‘assistenza sanitaria’, risponde soltanto delle attività di tracciabilità interna del sangue, non anche quando non provveda con un autonomo centro trasfusionale”.
Nel caso in esame, non essendoci prova che le sacche di sangue utilizzate provenissero da un autonomo centro trasfusionale, la richiesta risarcitoria avrebbe dovuto essere rivolta al Ministero della salute.
Nel rivolgersi alla Suprema Corte, la donna, tra gli altri motivi, assumeva l’errata applicazione dell’art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché, essendo stata invocata la responsabilità contrattuale dell’ospedale, quest’ultimo avrebbe dovuto, in base al principio di vicinanza della prova, provare il proprio esatto adempimento per andare esente da responsabilità.
Gli Ermellini, con la sentenza n. 18813/2021, ha ritenuto fondata la doglianza proposta.
Per la Cassazione, la Corte di merito si era posta in contrasto con l’indirizzo di legittimità che riconosce che la “responsabilità extracontrattuale del Ministero, in ordine ai sopraindicati compiti di controllo, direzione e vigilanza, non esclude affatto quella (eventualmente) a carico della struttura e dei medici, a carattere, invece, contrattuale ex artt. 1218 e 1228 c.c., (…) b) la legittimazione passiva in ordine alle domande risarcitorie sussiste sia nei confronti del Ministero ex art. 2043 c.c., che nei confronti della struttura e del personale sanitario ex artt. 1218 e 1228 c.c.(…)”.
Il Collegio distrettuale, dunque, aveva errato sia nel non valutare secondo diritto l’azione effettivamente esercitata dalla ricorrente (ossia quella da responsabilità contrattuale, sulla quale del resto s’era pronunciata, accogliendola, il giudice di primo grado), sia nell’individuare il legittimato passivo nel Ministero della Salute anziché, come avrebbe dovuto alla luce delle prospettazioni attoree, nella ex USL, d’altronde l’unica evocata in giudizio. Tra paziente e struttura ospedaliera, infatti, si configura un rapporto contrattuale autonomo e atipico (c.d. di spedalità), in forza del quale “la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di “assistenza sanitaria”, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori”.
Tale conclusione non è in contrasto con l’orientamento secondo cui “in materia di emotrasfusione e contagio da virus HBV, HIV, HCV, non risponde per inadempimento contrattuale la singola struttura ospedaliera, pubblica o privata, inserita nella rete del servizio sanitario nazionale, che abbia utilizzato sacche di sangue, provenienti dal servizio di immunoematologia trasfusionale della USL, preventivamente sottoposte ai controlli richiesti dalla normativa dell’epoca, esulando in tal caso dalla diligenza a lei richiesta il dovere di conoscere e attuare le misure attestate dalla più alta scienza medica a livello mondiale per evitare la trasmissione del virus, almeno quando non provveda direttamente con un autonomo centro trasfusionale”.
Si tratta, infatti, di una conclusione assunta all’esito di una valutazione di merito che, nella fattispecie in esame, è stata del tutto omessa, essendo chiaro che il nosocomio avrebbe potuto andare esente da responsabilità solo ove, dalle allegazioni e prove prodotte, fosse emerso che aveva adempiuto all’obbligazione su di esso gravante con diligenza qualificata, perché non era tenuto a compiere controlli ulteriori rispetto a quelli (all’epoca) comunemente praticati, non essendo esso autonomo centro trasfusionale, o perché aveva ricevuto le sacche di sangue utilizzate per la trasfusione da un centro trasfusionale che già aveva esercitato tutti i controlli esigibili.
La Corte d’Appello si era limitata a rilevare che non vi era prova che le sacche di sangue provenissero da un autonomo centro trasfusionale dell’ente ospedaliero e che la struttura sanitaria non era tenuta ad alcun controllo sulle sacche di sangue, essendo tale controllo attribuito per legge al Ministero della salute; si trattava evidentemente di conclusioni entrambe errate perché assunte in assenza di ogni verifica circa come le sacche di sangue risultato infetto fossero state acquisite – se tramite la struttura pubblica competente – e se e da chi fossero stati eseguiti i controlli (già) imposti dalla normativa allora vigente: controlli, la cui esigenza, essendo legata al rischio di trasmissione di malattie tramite il sangue che “è antico quanto la necessità delle trasfusioni” risultavano imposti e quindi esigibili.
Già dalla fine degli anni ‘60 – inizi anni ‘70 – rilevano dal Palazzaccio – il rischio di trasmissione di epatite era noto; la rilevazione (indiretta) dei virus essendo possibile già mediante la determinazione delle transaminasi ALT ed il metodo dell’anti-HbcAgin e dunque già all’epoca dei fatti, 1978, sussistevano obblighi normativi in ordine a controlli volti ad impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto e sin dalla metà degli anni sessanta infatti era vietata la possibilità di donare il sangue a coloro i cui valori delle transaminasi e delle GPT, indicatori della funzionalità epatica, fosse risultati alterati rispetto ai limiti prescritti.
La redazione giuridica
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