Grava sul paziente l’onere di provare la inesattezza delle informazioni ricevute e il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al Medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd. vicinanza della prova), essendo, il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del Medico, eventualità non rientrante nell’id quod plerumque accidit.

Un uomo affetto da “inveterata psedudoartrosi post traumatica dello scafoide, con riduzione dell’articolazione del polso dx pari ad 1/3 della mobilità complessiva” veniva visitato presso una clinica e il Medico gli rappresentava che avrebbe potuto ottenere benefici qualora si fosse sottoposto all’intervento di “emicarpectomia prossimale polso”. L’uomo pertanto acconsentiva all’intervento chirurgico che, però, non aveva gli esiti sperati. Per tale ragione citava dinnanzi al Tribunale di Milano la Struttura e il Medico lamentando l’inesattezza delle informazioni fornite dal sanitario, che gli aveva prospettato una soluzione migliorativa eccessivamente ottimistica, e che dunque era stato indotto in errore a credere in un diverso risultato più favorevole.

Il Giudice di prime cure condannava l’Istituto e il Medico che aveva prospettato la soluzione dell’intervento chirurgico di emicarpectomia prossimale del polso e garantito al paziente un possibile miglioramento dell’articolazione e della sintomatologia dolorosa, la preservazione dal processo degenerativo con il rischio -accettato dal paziente- della perdita del 30% di funzionalità dell’articolazione del polso.

Il Giudice di Appello rilevava, invece, che all’intervento chirurgico, eseguito correttamente seguiva  una riduzione della algia ma anche una perdita complessiva della funzionalità del polso di circa il 68-70%, ma che la contestazione del danneggiato sulla inesattezza delle informazioni sui rischi e sull’invalidità del consenso, non aveva fondamento.

I Giudici di secondo grado evidenziavano che la CTU accertava che il paziente, prima dell’intervento, soffriva di una riduzione funzionale di circa il 33% pari ad 1/3 (valutato come 12-13% grado di IP) e che dopo l’intervento chirurgico la riduzione di funzionalità era pari a circa il 67-68%, (valutato come 17-18% grado di IP), e che tale incremento corrispondeva a poco più della riduzione di funzionalità prospettata dal medico in sede di acquisizione del consenso informato (34% invece che 30%).

Per tali ragioni la Corte non ritiene fondata la tesi del danneggiato secondo cui il Medico avrebbe fatto riferimento alla riduzione massima in assoluto e non alla riduzione ulteriore -rispetto al preesistente stato invalidante -, in quanto si sarebbe pervenuti al paradosso che il rischio, ove verificatosi, avrebbe prodotto addirittura un miglioramento dello stato pregresso.

Il danneggiato ricorre in Cassazione (Cass. Civ., sez. III, sentenza n. 9887 del 26/05/2020) sostenendo che la  Corte d’Appello  non avrebbe deciso in ordine alla critica relativa alla mancanza di esaustività del consenso informato e che avrebbe errato nel negare rilevanza all’errore del Medico di avere fornito informazioni eccessivamente ottimistiche, violando così il proprio diritto alla autodeterminazione.

Secondo gli Ermellini il primo motivo è infondato in quanto la Corte d’Appello ha preso in esame le doglianze dell’uomo e individuato correttamente quale parametro di valutazione la comunicazione sottoscritta dal Medico nella quale erano indicati i plurimi scopi dell’intervento chirurgico tra i quali anche la diminuzione della sintomatologia algica ed il contrasto alla progressione degenerativa della patologia, obiettivi questi raggiunti a seguito della operazione chirurgica.

Viene pertanto definita corretta l’individuazione del thema controversum svolta dalla Corte di merito relativa al contenuto informativo fornito all’uomo in quanto la determinazione del Medico della percentuale di rischio di insuccesso e di peggioramento della mobilità del 30% era da considerarsi adeguata e non imprudentemente sottostimata, atteso che l’ulteriore aggravamento non poteva che intendersi riferito alla preesistente condizione invalidante dell’uomo.

Infatti, diversamente opinando non vi sarebbe stato alcun rischio peggiorativo, venendo sostanzialmente a coincidere la riduzione di mobilità del 30% con il difetto di mobilità del polso pari ad 1/3 che già affliggeva il paziente prima dell’intervento chirurgico.

Gli Ermellini ribadiscono che  la violazione, da parte del Medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni:

“un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti”

“un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, rinvenibile quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute”.

Sul paziente grava l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al Medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd. vicinanza della prova), essendo, il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del Medico, eventualità non rientrante nell’id quod plerumque accidit.

Tale prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile un danno risarcibile “in re ipsa” derivante esclusivamente dall’omessa informazione.

Quindi  il danneggiato che lamenta lesione del diritto alla autodeterminazione deve fornire la prova che se avesse ricevuto informazioni corrette avrebbe certamente rifiutato di sottoporsi all’intervento chirurgico.

La allegazione dei fatti dimostrativi che il paziente avrebbe esercitato costituisce elemento integrante dell’onere della prova del nesso eziologico tra l’inadempimento e l’evento dannoso, che in applicazione dell’ordinario criterio di riparto ex art. 2697 c.c., comma 1, compete ai danneggiati….” (Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 19199 del 19/07/2018).

I Supremi Giudici evidenziano che la lamentata violazione del diritto alla autodeterminazione per insufficiente informazione sia del tutto infondata perchè non può considerarsi ingannevole l’informazione fornita dal Medico al paziente.

Oltretutto il danneggiato confonde “danno e lesione del diritto” e “violazione del diritto di autodeterminazione” con “violazione del diritto alla salute”.

In conclusione il ricorso dell’uomo viene rigettato.

Avv. Emanuela Foligno

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