Infortunio sportivo del finanziere nel corso delle Olimpiadi (Cassazione civile, sez. lav., dep. 30/05/2022, n.17435).

Infortunio sportivo del finanziere nel corso delle Olimpiadi e richiesta di riconoscimento dello status di vittima del dovere.

Il danneggiato, arruolato nella Guardia di finanza nel 1994 e atleta nella disciplina del judo, veniva avviato al 2 nucleo Atleti Fiamme Gialle e partecipava alle competizioni sportive.

Nel corso delle Olimpiadi del 2004,  durante un combattimento, restava ferito al ginocchio a causa di una violenta leva dell’arto, con infermità, riconosciuta dipendente da causa di servizio e ascritta, dapprima, all’ottava categoria, poi, alla settima, quindi, alla sesta vitalizia.

Il Tribunale di Milano rigettava la domanda di riconoscimento dei benefici per le vittime del dovere.

Escludeva che l’infortunio sportivo fosse riconducibile “allo svolgimento dell’attività in contesti inerenti alla tutela dell’ordine pubblico e della pubblica incolumità, alla difesa del territorio e, più in generale, all’intervento in situazioni di calamità e pericolo per la collettività”.

Successivamente, la Corte di Appello di Milano, sebbene con motivazione differente, respingeva il gravame. Nello specifico, i Giudici di secondo grado ritenevano come l’infortunio sportivo non fosse riconducibile alla previsione astratta, in difetto di una “azione recata nei confronti (della vittima) da parte dell’avversario”.

Il Collegio di merito evidenziava che nello svolgimento di una gara sportiva opera la scriminante atipica del cd. “rischio consentito” da parte di entrambi i partecipanti, tanto più in presenza di una gara nell’ambito di uno sport caratterizzato da necessaria violenza e contatto fisico, come il Judo.

Il finanziere ricorre in Cassazione censurando i presupposti di responsabilità per l’infortunio sportivo motivati dalla Corte d’Appello di Milano, nella parte in cui esclude che la lesione riportata sia frutto dell’azione dell’altro contendente, ma l’esito di una gara in cui le azioni sarebbero state reciproche.

La Cassazione osserva che per vittime del dovere devono intendersi i soggetti di cui alla L. 13 agosto 1980, n. 466, art. 3 e, in genere, gli altri dipendenti pubblici deceduti o che abbiano subito un’invalidità permanente in attività di servizio o nell’espletamento delle funzioni di istituto per effetto diretto di lesioni riportate in conseguenza di eventi verificatisi: a) nel contrasto ad ogni tipo di criminalità; b) nello svolgimento di servizi di ordine pubblico; c) nella vigilanza ad infrastrutture civili e militari; d) in operazioni di soccorso; e) in attività di tutela della pubblica incolumità; f) a causa di azioni recate nei loro confronti in contesti di impiego internazionale non aventi, necessariamente, caratteristiche di ostilità.

La citata Legge precisa che sono ricompresi nel novero delle vittime del dovere, coloro che abbiano contratto infermità permanentemente invalidanti, o alle quali consegua il decesso, in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, effettuate dentro e fuori dai confini nazionali e che siano riconosciute dipendenti da causa di servizio per le particolari condizioni ambientali od operative.

Le Sezioni Unite n. 759 del 2017, hanno chiarito, per quanto qui di interesse, con riferimento al concetto di condizioni ambientali ed operative “particolari” che queste ultime sono quelle che si collocano al di fuori del modo di svolgimento dell’attività “generale”, id est “normale”, in quanto corrispondente a come l’attività era previsto si svolgesse. Si tratta cioè di una connotazione aggiuntiva e specifica, non essendo sufficiente la semplice dipendenza da causa di servizio.

Ciò posto, viene escluso che l’infortunio sportivo rientri nella previsione aperta dettata dal comma 564. La Corte di Appello ha, infatti, escluso “particolari fatti straordinari che hanno esposto l’atleta, nella gara di Atene, a maggiori rischi di quelli ordinari consentiti”.

La Corte di Milano ha, in particolare, ritenuto che nella condotta dell’atleta che rispetti le regole del gioco, nell’ambito di una disciplina a violenza necessaria o indispensabile, e in tale contesto provochi l’infortunio sportivo dell’avversario, difetti “un’azione recata” e dunque la fattispecie tipica.

La Suprema Corte conferma le conclusioni della Corte milanese ed afferma che “ quando, nell’ambito di competizioni internazionali, il rischio cui è esposto l’atleta militare è quello tipico (comune cioè) ad ogni sportivo della disciplina praticata, l’eventuale infermità derivante da infortunio sportivo, se riportata quale conseguenza di un contatto fisico tra i giocatori, correlato esclusivamente all’attività sportiva, non vale a far guadagnare, a chi ne è colpito, la condizione di vittima del dovere, con la relativa tutela L. n. 266 del 2005 ex art. 1, e il comportamento del competitore non è riconducibile alla nozione di “azione recata”.

Il ricorso viene respinto.

Avv. Emanuela Foligno

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