Confermata, agli effetti civili, la condanna di un automobilista accusato di interruzione colposa di gravidanza per aver provocato un sinistro stradale con una vettura a bordo della quale viaggiava una gestante

Era stato condannato, in sede di merito, alla pena di un anno di reclusione e al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, per il reato di interruzione colposa di gravidanza, in quanto ritenuto responsabile della collisione tra il veicolo da lui condotto e quello a bordo del quale viaggiava una donna alla trentaquattresima settimana di gestazione che – secondo l’ipotesi accusatoria – in conseguenza del sinistro aveva sofferto il distacco della placenta e la morte del nascituro.

La Corte d’appello, in particolare, aveva osservato: “a) che il quadro degli accertamenti medici effettuati sull’imputato nell’immediatezza del ricovero al Pronto Soccorso attestava, al di là delle generiche censure dell’appellante, una incisiva significatività d’insieme, alla luce dei valori riscontrati, ben superiori ai limiti previsti dalla disciplina in tema di stupefacenti, e della sicura incidenza dei ragguardevoli valori alcolemici, ancorché non esorbitanti, sulle già compromesse capacità psicosensoriali dell’imputato; b) che la velocità dei veicoli, quale motivatamente ricostruita dal consulente tecnico del p.m., sulla base di argomentazioni non specificamente contestate dall’appellante, evidenziava come l’unico a tenere una velocità non consentita dalla segnaletica esistente in zona fosse l’imputato; c) che la velocità osservata dal veicolo antagonista, oltre ad essere consentita dalla segnaletica, non era inconciliabile con le caratteristiche dell’incrocio, a visuale alquanto circoscritta, tenuto conto del fatto che l’impianto semaforico, risultato perfettamente funzionante, recava per il conducente luce verde; d) che quest’ultima circostanza, riferita dal conducente stesso con risolutezza sin dal primo momento, non era smentita da alcuna risultanza processuale, dal momento che neanche l’imputato aveva dichiarato il contrario, avendo sempre riferito di non ricordare nel dettaglio le precise circostanze del violento sinistro nel quale era stato coinvolto.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte il ricorrente lamentava vizi motivazionali e violazione di legge, in relazione alla affermazione di responsabilità nei suoi confronti, non sorretta da elementi univoci idonei a superare il ragionevole dubbio sul punto.

In particolare osservava: a) che illegittimamente la Corte territoriale aveva concluso per l’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, in assenza della mancata prova della loro falsità non fornita dall’imputato; b) che, in assenza di testimoni oculari e di riscontri oggettivi di qualsiasi natura, anche alla luce della consulenza tecnica del p.m., si era attribuito valore di prova alle dichiarazioni di soggetto poi costituitosi parte civile; c) che non assumeva rilievo il fatto che l’imputato non fosse riuscito a rendere una versione dei fatti a discarico, in quanto la memoria non gli consentiva di ricordare la dinamica del sinistro, giacché le dichiarazioni del conducente della vettura antagonista, oltre a provenire da soggetto (prima indagato, poi parte civile) portatore di un interesse rispetto alla definizione della controversia, erano risultate non veritiere quanto alla velocità osservata e comunque non erano state rese nell’immediatezza del sinistro del 19/02/2012, ma solo il 02/03/2012, quando lo stesso aveva avuto modo di consultarsi col difensore di fiducia; d) che nell’atto di appello erano svolte considerazioni, ignorate dalla sentenza impugnata, quanto alla ricostruzione del sinistro da parte del consulente tecnico del p.m., ritenuta, invece, dalla Corte territoriale, incontestata, per ciò che attiene alla dinamica del sinistro e alla velocità dei veicoli; e) che la Corte d’appello, rilevando l’intervenuta prescrizione della contravvenzione, non si era pronunciata sulle censure svolte in appello, quanto alla sussistenza dei presupposti del reato di cui all’art. 187 d. Igs. n. 285 del 1992 e, in particolare, alla guida in stato di alterazione causato dall’assunzione di sostanze stupefacenti; f) che, ciononostante, la sentenza impugnata, aveva utilizzato, come elemento rafforzativo delle proprie conclusioni, gli accertamenti sui campioni biologici di urina dell’imputato.

La Suprema Corte, nell’annullare la sentenza impugnata per intervenuta prescrizione, ha comunque ritenuto di esaminare, in virtù della presenza della parte civile, il motivo del ricorso, considerandolo nel complesso infondato.

Il ricorso, infatti, non contestava, innanzi tutto, che il veicolo condotto dall’imputato procedesse alla velocità di 66km/h e quello del veicolo antagonista intorno a 50 km/h, riportando il dato – stimato dal consulente tecnico – che la velocità sarebbe stata di 50,05 km/h, e ricordava che lo stesso consulente aveva concluso nel senso che le conseguenze, in termini di lesioni, sarebbero state le stesse anche senza il lieve scostamento della prescritta velocità di 50 km/h (tale essendo, secondo l’incontestato accertamento della sentenza di merito, il limite di velocità consentito nel tratto di strada del quale si tratta).
In tale contesto, del tutto razionalmente la Corte territoriale aveva valorizzato, con accertamento di merito insuscettibile di sindacato in sede di legittimità, i valori accertati presso il Pronto Soccorso, quanto alla assunzione, da parte dell’imputato, di stupefacenti e alcolici, concludendo – a differenza di quanto affermava il ricorrente stesso – per la loro incidenza sulle piene capacità psicosensoriali ossia sulla alterazione provocata da siffatta assunzione.

Così come, non si registrava alcuna logicità nell’avere inserito, nel quadro valutativo, il dato che l’imputato non fosse stato in grado di dire nulla sulla dinamica del sinistro. “Il difetto di memoria, come spiegazione difensiva – hanno sottolineato dal Palazzaccio -, è affermazione di assoluta genericità. Sul punto, pertanto, non si registra affatto una alterazione del procedimento di valutazione della attendibilità della deposizione della persona offesa, che si sia costituita parte civile (anche volendo considerare l’interesse, prospettato dal ricorrente, del Sereni a sottrarsi alle conseguenze penalistiche della sua eventuale guida colposa). Al riguardo, deve ribadirsi che le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. In ogni caso, la verifica attraverso indici esterni delle dichiarazioni della persona offesa non si deve tradurre nell’individuazione di prove dotate di autonoma efficacia dimostrativa, dal momento che ciò comporterebbe la vanificazione della rilevanza probatoria delle prime”.

È in tale contesto che i giudici di merito, pur considerando le specificità della posizione dell’imputato, avevano logicamente valorizzato le alterate condizioni di guida dello stesso, il fatto che quest’ultimo non fosse stato in grado di dire nulla della dinamica del sinistro e, infine, la velocità non consentita con il quale aveva condotto il proprio veicolo. L’individuazione dell’esatto momento in cui il ricorrente aveva reso le proprie dichiarazioni – infine – non aveva significativo rilievo.

La redazione giuridica

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