La Corte di Appello di Roma ha riformato la pronuncia emessa dal Tribunale di Roma del 22/07/2022 e assolto il Medico perché il fatto non sussiste. Per la Cassazione i giudici di secondo grado hanno coerentemente argomentato la correttezza della condotta del Medico.
I fatti
Il Chirurgo, dal 2001 al 2014, aveva seguito la paziente affetta dal 1997 da grave e persistente infezione da HPV responsabile della comparsa di multiple e recidivanti lesioni displastiche di vario grado a carico della cervice uterina, della vulva, della regione perianale. Su queste aree il medico aveva eseguito diversi interventi chirurgici di escissione di dette lesioni, con pregressa diagnosi nell’anno 2000 di carcinoma in situ multifocale alla vulva con estesa infiltrazione delle ghiandole sottostanti (VIN-32), portatrice di elevato rischio noto di contrarre carcinoma come complicanza dell’infezione virale da HPV.
Alla paziente comparivano due piccole escrescenze, rispettivamente a carico della zona perianale destra e perigenitale incavo coscia sinistra. Il medico, avendo documentato un esame di Risonanza magnetica delle pelvi dell’11/11/14, posto il sospetto diagnostico di recidiva carcinoma alla vulva, non disponeva una preventiva biopsia e richiedeva intervento chirurgico.
Effettuava pertanto un intervento di ampia escissione di tessuto perianale il 17/11/15, non limitandosi all’escissione dell’ascesso e a biopsie limitate a scopo diagnostico, eseguendo un intervento chirurgico altamente demolitivo e gravemente invalidante non indicato e dannoso, avente il solo effetto di peggiorare ulteriormente le condizioni tissutali loco-regionali ed esporre la paziente ad ulteriori quanto inutili dolori, e inutile successivo intervento di colostomia.
Cosa viene contestato al medico
Quindi al chirurgo viene contestata imprudenza, imperizia, negligenza e inosservanza di linee guida e buone prassi.
Infatti il Medico doveva primariamente prescrivere una biopsia per caratterizzare e circostanziare una diagnosi di cancro e avviare la paziente ad iniziare il più rapidamente possibile un trattamento integrato di chemio-radioterapia in grado, in larga percentuale, di guarire la lesione.
Al limite, nel corso dell’intervento chirurgico avrebbe dovuto limitarsi ad incidere l’ascesso, per la bonifica dei distretti interessati, e ad effettuare biopsie di limitate dimensioni. Potendo la malattia neoplastica, nel caso di intervento chirurgico volto solo all’incisione e drenaggio della raccolta purulenta dell’ascesso e a biopsie di limitate dimensioni, seguito da colostomia del sigma e chemio-radioterapia, essere trattata efficacemente senza postumi invalidati.
La vicenda giudiziaria
I Giudici di Appello, all’esito di rinnovata CTU Medico-legale, hanno affermato che non è risultata provata l’ipotesi del fatto lesivo a carico del Medico in quanto non vi era stata asportazione demolitiva il 17/11/2014, ma solo asportazione chirurgica di una porzione del tessuto, ai fini bioptici, senza determinare lesioni o danni anatomici, della lesione tumorale ed incisione dell’ascesso al fine di consentire il drenaggio dello stesso che interessava la regione glutea e perianale. Il medico, infatti, ha correttamente trattato la neoplasia con radioterapia iniziata il 23/12/2014, che ha avuto esito favorevole sul decorso della patologia neoplastica.
La paziente ricorre in Cassazione
Lamenta che la Corte di Appello avrebbe acriticamente aderito all’opinione dei Periti di ufficio senza tenere conto che lo stesso Medico imputato, in cartella clinica, indicava che si trattava di asportazione di neoformazione perineale
Lamenta, inoltre, che il Collegio di merito non riteneva esigibile in capo al Medico il prelievo di tessuto (per la biopsia) di dimensioni inferiori sulla scorta della condizione di anatomia sovvertita e dell’esigenza di prelevare margini della lesione.
È stato anche ignorato, sempre secondo la tesi difensiva della paziente, che le linee guida prodotte in primo grado, in vigore all’epoca dell’intervento, impongono esecuzione di prelievi bioptici ai fini diagnostici di dimensione molto inferiore e con margini di poco superiori a 5 mm; e che l’escissione locale è ritenuta dalle linee guida non efficace per i tumori piccoli del canale anale e controindicata.
Le censure sono infondate
Analizziamo i punti critici dell’operato del Medico emersi in primo grado che hanno condotto alla condanna dell’imputato da parte del Tribunale, rispetto alla ricostruzione operata dalla Corte di Appello che ha fatto una pronuncia assolutoria sulla base della rinnovata perizia di ufficio.
Il Tribunale ha così ricostruito la vicenda:
la paziente aveva iniziato a manifestare sin dal 1997 lesioni displastiche di vario grado, dapprima a livello della cervice uterina (con diagnosi di neoplasia intraepiteliale cervicale di alto grado), fino ad arrivare a novembre 2014, quando le veniva diagnosticato formazione perianale. Ella aveva esibito la tendenza a sviluppare, nel corso degli anni (1997-2014), recidivanti lesioni neoplastiche della regione ano-genitale. Si trattava di un quadro clinico molto complesso, indotto da infezione da parte di uno o più virotipi oncogeni particolarmente virulenti di HPV.
Quanto all’intervento chirurgico del 17/11/2014, le grosse dimensioni dei multipli prelievi tessutali effettuati fanno ritenere che l’intervento avesse finalità terapeutiche e non diagnostiche- come sostenuto dal sanitario. La strategia di trattamento dei carcinomi all’ano e del canale anale ha come obiettivo la cura della paziente senza l’utilizzo di interventi demolitivi e la “chirurgia di salvataggio può essere necessaria per una malattia residua dopo la terapia radiante o chemio-radioterapia concomitante, per le recidive locali o i postumi”. Quindi, secondo il corretto approccio diagnostico e terapeutico, occorre dapprima di effettuare un prelievo bioptico dei tessuti, finalizzato a programmare il percorso radio- chemioterapico, e solo in termini di extrema ratio, in caso di malattia residua post trattamento ed in caso di recidiva, effettuare l’intervento chirurgico.
Nel caso di specie l’intervento era di portata demolitiva ed ha determinato il prolungamento dei tempi di attesa per l’effettuazione dei trattamenti radio- chemioterapici, a causa del lungo periodo di convalescenza dettato dalle gravi lesioni post operatorie. Non rileva in alcun modo la presenza di fistolizzazione purulenta locale, come giustificazione all’intervento demolitivo effettuato, in quanto un trattamento conservativo associato al drenaggio chirurgico del tramite fistoloso ed opportuna terapia antibiotica avrebbe consentito una maggiore tempestività nella guarigione alla paziente, con un immediato avvio dei trattamenti oncologici.
La diversa lettura della Corte d’Appello
La Corte d’Appello ha dato una diversa lettura della vicenda valutando anche la terminologia adottata dall’imputato nella redazione degli atti a sua firma e risultanti dalla cartella clinica, in quanto il termine escissione indica asportazione chirurgica di una porzione di tessuto, il termine asportazione è generico ed entrambi nulla di specifico dicono dal punto di vista medico scientifico.
I Giudici di Appello hanno dato significato alle concrete caratteristiche dell’intervento e alla sua compatibilità con una finalità bioptica e diagnostica e non terapeutica. I giudici hanno evidenziato che i Periti di ufficio hanno constatato due cicatrici che erano state determinate dall’asportazione e incisione dell’ascesso eseguita durante l’intervento al fine di consentire il drenaggio dello stesso, posto che la terapia antibiotica non avrebbe avuto effetto; una cheratite post-attinica non riconducibile all’intervento ma alla successiva radioterapia.
Quanto all’entità dei tessuti asportati e alla compatibilità con un intervento meramente bioptico hanno affermato che l’ampiezza del prelievo trovava giustificazione nella condizione fisica della donna, area anatomicamente sovvertita a seguito di tramiti fistolosi, di un forte ascesso sul gluteo destro e di una cellulite sottocutanea glutea a sinistra con destrutturazione dei piani tanto i che i fasci dei piani muscolari i piani cutanei e sottocutanei erano indistinguibili; ha affermato che l’escissione bioptica doveva spuntare una losanga di tessuto che comprendeva la lesione visibile e i margini per verificare se c’era infiltrazione dei margine e dei tessuti ed eliminare quella cute e sottocute macerata che non avrebbe consentito una suturazione con lembo a Z indispensabile al fine di riaccostare i margini.
Hanno affermato che la biopsia non aveva portato aggravamento di lesioni o danni anatomici né ritardi nell’inizio della radioterapia iniziata il 23/12/2014, stante la necessità di un intervento in colostomia effettuato per impedire il passaggio delle feci nella zona interessata dalla radioterapia.
Il giudizio di Cassazione
Preliminarmente viene ricordato che il Giudice ha piena libertà di apprezzamento delle risultanze della perizia ma che, al contempo, tale libertà è temperata dall’obbligo di motivazione. In presenza di tesi scientifiche contrapposte, l’adesione alle conclusioni del Perito d’ufficio può ritenersi adeguatamente motivata ove il Giudice ne indichi l’attendibilità, mostrando di non aver ignorato le conclusioni dei Consulenti tecnici di parte.
In questo quadro, la Corte di Cassazione deve valutare, piuttosto che l’esattezza di una tesi rispetto ad un’altra, la correttezza metodologica dell’approccio del Giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, ossia la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni utilizzate ai fini della spiegazione del fatto.
Calando tale regola al tema della responsabilità medica, il Giudice che si discosta dalle conclusioni del Perito d’Ufficio deve fornire una approfondita motivazione e illustrare accuratamente le ragioni della sua scelta, in rapporto ai risultati che ha disatteso, attraverso un ragionamento logico, congruo e corretto.
I Giudici di Appello hanno coerentemente argomentato la correttezza della condotta del Medico, anche attraverso il giudizio controfattuale. Peraltro, la Suprema Corte sottolinea che anche i Periti del P.M. erano giunti alle medesime conclusioni, senza che il Tribunale ne tenesse conto.
L’approccio del medico è ritenuto corretto
I Consulenti del P.M. hanno affermato che “l’approccio adottato dal Medico risultava rispettoso delle linee guida e buone pratiche cliniche, essendo stato preceduto dall’esecuzione di una risonanza magnetica delle pelvi e da una biopsia escissionale sulla neoformazione perianale. In particolare, il Medico, sulla base del solo aspetto della lesione perianale, non avrebbe potuto formulare una diagnosi di certezza di carcinoma anale, conseguibile solo sulla base di una conferma istologica (sulla base del solo aspetto macroscopico sarebbero potute emergere una serie di diagnosi differenti rispetto al tumore all’ano).
Ne derivava la correttezza della soluzione escissionale, capace di consentire un accurato esame istologico, anche a fronte del fatto che nel corso dello stesso intervento era stato eseguito un esame istologico “in estemporanea”, con esito negativo per neoplasia. La presenza di un ascesso necessitava di un approccio chirurgico volto alla bonifica di tale distretto, essendo ogni altro tipo di terapia inefficace su condizioni così purulente. Non sarebbe stato riscontrabile alcun ritardo nell’inizio delle cure radio-chemioterapiche: la riduzione del quadro ascessuale era necessaria al fine di poter iniziare cure oncologiche”.
Alla luce di ciò, concludevano nel senso della correttezza dell’intervento in relazione alle linee guida e alle buone pratiche mediche affermando, in sintesi, che di fronte ad una lesione di natura incerta, con l’intervento eseguito dal Medico si era potuto procedere alla bonifica del campo purulento, eseguendo una biopsia escissionale mediante la quale si era giunti ad una diagnosi certa di carcinoma all’ano.
Completezza e correttezza della motivazione della sentenza impugnata
Conseguentemente, una volta che il Giudice, come nel caso di specie, ha coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale affermare che questi atti si prestavano a una diversa lettura o interpretazione, munite di eguale crisma di logicità.
Quello che deve fare la Cassazione è verificare la completezza e la correttezza della motivazione della sentenza impugnata e non deve valutare ex novo le risultanze acquisite nei precedenti gradi di merito.
Avv. Emanuela Foligno