La Corte di Appello di Trieste (sent. 264/2020) ha condannato Azienda Sanitaria e 3 sanitari a risarcire oltre seicentomila euro alla paziente che si era sottoposta a intervento di riassegnazione dei caratteri sessuali. La Cassazione conferma (Cassazione civile, sez. III, 13/05/2024, n.13046).
La vicenda
La paziente si sottoponeva nel 2000, presso l’Azienda Sanitaria Universitaria di Trieste, a un intervento di riassegnazione dei caratteri sessuali. Nel 2013 tornava presso lo stesso ospedale, rivolgendosi al medico che l’aveva operata nel 2000, denunciando difficoltà nella minzione. La paziente concordava con il professionista un intervento di allungamento della vagina realizzata nel 2000 per risolvere il problema della minzione e al contempo migliorare i rapporti sessuali.
Successivamente all’intervento, la stessa sporgeva denuncia penale e chiamava in causa sia la struttura sanitaria che il chirurgo e altri 2 medici. La danneggiata chiedeva la condanna al risarcimento dei danni per aver eseguito senza alcun rispetto delle regole di diligenza l’intervento, senza assicurarle la dovuta assistenza post-operatoria, provocando la necessità di nuovi interventi chirurgici e un grave danno permanente alla persona.
Esponeva che l’intervento chirurgico programmato aveva avuto un esito rovinoso, in quanto si verificava la fuoriuscita di feci dalla vagina e una immediata infezione, e che anche l’assistenza post-operatoria era stata gravemente carente. Nonostante le richieste di aiuto, i medici tardavano ben sei giorni ad eseguire la risonanza magnetica, mantenendo cioè i tempi originariamente programmati per il controllo postoperatorio, senza accelerarlo in virtù dell’urgenza segnalata dalla sofferenza della paziente. Quindi solo con ritardo individuavano la presenza di una fistola e le diagnosticavano una peritonite terziaria, che veniva curata con massicce dosi di antibiotici.
I successivi interventi falliti
La paziente, quindi, dovette sottoporsi a un secondo, e poi a un terzo intervento, nel tentativo, fallito, di chiudere la fistola. Nei mesi successivi doveva sottoporsi ad altri sette ricoveri per complicazioni e tentativi chirurgici di ridurre gli esiti permanenti. Alla fine di questo percorso, la paziente si trovava ad avere subito una laparotomia e una colonstomia, con confezionamento di un ano terminale sul sigma con affondamento del moncone distale. La danneggiata aveva perso ogni possibilità di usare la vagina per rapporti sessuali e l’autosufficienza urinaria e fecale, essendo ormai incontinente e costretta a convivere per tutta la vita con un ano artificiale e con il sacchetto per le relative produzioni. Inoltre si aggiungono la perdita della possibilità di svolgere attività fisica e le ripercussioni a livello psicologico e della vita di relazione dell’accaduto.
La denuncia penale veniva archiviata, mentre in sede civile il Tribunale di Trieste accoglieva la domanda risarcitoria. Accertava una complessiva invalidità del 56/57%, liquidava in favore della danneggiata un importo di 650.000 euro circa comprensivo anche delle spese mediche future. La Corte di Appello confermava il giudizio di primo grado.
L’intervento della Corte di Cassazione
L’Azienda Sanitaria Universitaria e i tre sanitari segnalano una insanabile contraddizione nella sentenza, la quale da un lato avrebbe dato atto che le limitazioni funzionali riportate dalla paziente sarebbero connesse a una perdita di chance di guarigione, dall’altro lato avrebbe affermato che, in realtà, anche le limitazioni funzionali e la conseguente riduzione dell’integrità psicofisica nella misura del 50% devono essere sommate al danno iatrogeno perché in rapporto di causalità diretta con il comportamento medico. Evidenziano, inoltre, l’esistenza di motivazione apparente in ordine al danno da perdita di chance.
La paziente, per contro, sottolinea che il CTU ha individuato due aspetti di imperizia e negligenza da parte dei medici operanti: il primo, la deiscenza della anastomosi ileale con peritonite generalizzata; il secondo, conseguente al trattamento della fistola retto-vaginale. Sottolinea che il CTU ha individuato un ritardo nel trattamento della fistola e una errata metodologia scelta per emendarla, che sono state la causa della mancata guarigione della stessa e della sua cronicizzazione con ulteriori danni permanenti, consistenti nella stomia e nella stenosi della vagina e del retto.
Segnala che la stessa CTU avrebbe accertato la negligenza e imperizia dei medici nella fase post- operatoria, per aver tardivamente trattato la fistola e utilizzato una metodologia sbagliata per cercare di guarirla, provocando le conseguenze croniche con una complessiva invalidità permanente del 56/57%. Aggiunge che esula da questa percentuale il danno da perdita di chance a cui fa impropriamente riferimento il CTU, che del resto è stato espunto dal ragionamento decisionale della Corte d’appello.
Il ricorso principale dei soccombenti
La Suprema Corte, senza tanti giri di parole, evidenzia che “maliziosamente” i sanitari e la Azienda Sanitaria hanno fatto leva su una impropria affermazione in diritto contenuta nella CTU di primo grado e poi recuperata dalle sentenze, che tuttavia non fa parte dell’apparato decisionale delle stesse. Il CTU, infatti, descriveva la grave situazione in cui versava la paziente dopo, e a causa, degli interventi chirurgici e provvedeva ad una sorta di qualificazione giuridica del danno, attività non di sua competenza, affermando “l’esistenza di un danno da malpractice, cui associava postumi permanenti dell’ordine del 6/7 %, e un danno da perdita di chance “astrattamente riconoscibile ma non quantificabile”, che rapportava alla misura del 50% al netto del danno iatrogeno, per un totale di invalidità del 56/57%”.
Ebbene, la sentenza richiama le “improprie” affermazioni del CTU, ma è ben chiara nell’affermare che le conseguenze permanenti degli interventi, per le quali il Consulente fa riferimento impropriamente di perdita di chance ma che illustra compiutamente nelle loro conseguenze di riduzione permanente dell’integrità psico-fisica, non sono da ricondursi alla nozione di perdita di chance, ma alla invalidità complessiva e attuale, in quanto si tratta di danno immediato e diretto, conseguenza dell’errato intervento medico e della poco accurata assistenza post-operatoria.
Quindi, le affermazioni sulla chance contenute nella CTU non hanno alcuna rilevanza decisoria.
Il ricorso principale è rigettato, il ricorso incidentale della paziente è assorbito.
Avv. Emanuela Foligno