Respinto il ricorso di una casa di cura condannata, in solido con un medico, al risarcimento dei danni subiti da un paziente per un caso di malpractice medica

La responsabilità della struttura sanitaria è una responsabilità definita a doppio binario, giacché essa origina da due fatti distinti: quella derivante dall’inadempimento di quegli obblighi che presiedono per legge all’erogazione del servizio sanitario (i quali, ad esempio, danno luogo a responsabilità per infezioni nosocomiali, per difetto di organizzazione e per carenze tecniche, per mancata sorveglianza); quella derivante dall’attività illecita, trovante occasione nell’erogazione del servizio sanitario, imputabile a coloro della cui attività il nosocomio si sia avvalso, ex art. 1228 cod.civ. Lo ha chiarito la Cassazione nell’ordinanza n. 24688/2020 nel respingere il ricorso presentato da una casa di cura nell’ambito di un contenzioso in tema di malpractice medica.

Nello specifico un paziente aveva citato in giudizio la struttura sanitaria e un medico in servizio presso la stessa chiedendo il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, conseguenti alla cattiva esecuzione di un intervento chirurgico. La casa di curaconvenuta, costituitasi in giudizio, chiedeva il rigetto della domanda, deducendo che non era stato mosso alcun addebito per carenze della struttura e della organizzazione ospedaliera e che non era stato prospettato alcun difetto o malfunzionamento dei macchinari e della struttura. Chiedeva, altresì, che si tenesse conto che con il medico non sussisteva alcun rapporto di lavoro subordinato e chiedeva di poterlo chiamare in causa al fine di esserne manlevata, nell’ipotesi di condanna.

Il Tribunale, in primo grado, accoglieva la domanda dell’attore e, per l’effetto, condannava in solido i convenuti a corrispondergli euro 128.996,00, a titolo di danno non patrimoniale, euro 4.587,98, per spese sanitarie, euro 6.600,00, a titolo di danno patrimoniale, oltre a rivalutazione e interessi legali; accertava un riparto interno di responsabilità fra i due convenuti pari al 50% e, dunque, rigettava la domanda di regresso della convenuta contro ilo medico.

La decisione veniva confermata anche in sede di appello.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, la casa di cura censurava sostanzialmente l’applicazione, nei rapporti tra la struttura e l’operatore sanitario, del disposto dell’art. 1298, 2° comma, cod.civ. con riferimento alla specifica fattispecie del contratto di spedalità, avendo la Corte d’Appello ritenuto intercorrente nei rapporti interni tra i debitori solidali, la presunzione di parità (50%) dell’obbligazione prevista dalla norma, in ragione del mancato accertamento di una responsabilità esclusiva del medico e/o di una responsabilità in misura percentuale diversa rispetto a quella del nosocomio, ritenendo, peraltro, tale ultimo profilo non oggetto di specifica contestazione.

A detta della ricorrente –  essendo accertato che il sanitario aveva sbagliato nel rinvenire nel caso del paziente una indicazione chirurgica a favore dell’intervento eseguito, nel ritenere l’intervento l’unica indicazione possibile, nel non considerare che proprio la non indicazione chirurgica s’attagliava a quel tipo di intervento, e che a causa del suo clamoroso errore aveva provocato uno stato permanente di instabilità a carico del rachide del paziente, comportante la necessità di interventi chirurgici di stabilizzazione – la Corte d’Appello non avrebbe dovuto ritenere non accertata, né in via esclusiva, né in diversa percentuale, la responsabilità del camice bianco.

La Suprema Corte, tuttavia, ha ritenuto di non aderire alle argomentazioni proposte. Gli Ermellini, applicando la giurisprudenza di legittimità, hanno ritenuto che, avendo il medico operato nel contesto dei servizi resi dalla ricorrente, la sua condotta negligente non potesse essere “isolata” dal più ampio complesso delle scelte organizzative, di politica sanitaria e di razionalizzazione dei propri servizi operate dalla struttura, di cui il professionista stesso era parte integrante, “vieppiù considerando che il già citato art. 1228 cod.civ. fonda, a sua volta, l’imputazione al debitore degli illeciti commessi dai suoi ausiliari sulla libertà del titolare dell’obbligazione di decidere come provvedere all’adempimento, accettando il rischio connesso alle modalità prescelte, secondo la struttura di responsabilità da rischio d’impresa (cuius commoda eius et incommoda) ovvero, descrittivamente, secondo la responsabilità organizzativa nell’esecuzione di prestazioni complesse”.

Di conseguenza, essendosi la ricorrente avvalsa della “collaborazione” del medico  (utilità), era tenuta a rispondere dei pregiudizi da costui cagionati (danno).

La Suprema Corte ha poi specificato che “la responsabilità di chi si avvale dell’esplicazione dell’attività del terzo per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale trova radice non già in una colpa “in eligendo” degli ausiliari o “in vigilando” circa il loro operato, bensì nel rischio connaturato all’utilizzazione dei terzi nell’adempimento dell’obbligazione, realizzandosi, e non potendo obliterarsi, l’avvalimento dell’attività altrui per l’adempimento della propria obbligazione, comportante l’assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino”.

La Corte territoriale senza incertezze aveva affermato, infatti l’irrilevanza ai fini dell’esclusione della responsabilità della struttura della circostanza, evidenziata, invece, dai difensori della clinica, che l’attore non avesse mai lamentato difetti o malfunzioanmenti dei macchinari o delle strutture dell’istituto. Nella specie, infatti – hanno sottolineato dal Palazzaccio –  la responsabilità di cui si discute non ha un’origine correlabile a problematiche di funzionamento di macchinari o di strutture dell’istituto clinico. Essa nella specie è stata ricollegata (…) all’operato del medico”, su cui la clinica aveva l’obbligo di vigilare ed il cui inadempimento, ex art. 1228 cod.civ., bastava a ritenerne sussistente la responsabilità.

In linea astratta i Giudici di Piazza Cavour hanno sottolineato che spettava alla clinica vincere la presunzione di responsabilità di pari contribuzione al danno da parte dei condebitori in solido, provando la diversa misura delle colpe e della derivazione causale del sinistro: non bastando ad escludere la sua corresponsabilità la mera affermazione che l’inadempimento fosse ascrivibile alla condotta del medico, ma occorrendo considerare il duplice titolo in ragione del quale la struttura era stata chiamata a rispondere del proprio operato, sicché sarebbe stato suo onere dimostrare non soltanto la colpa esclusiva del medico, ma la derivazione causale dell’evento dannoso da una condotta del tutto dissonante rispetto al piano dell’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, in un’ottica di ragionevole bilanciamento del peso delle rispettive responsabilità sul piano dei rapporti interni.

L’accertamento del fatto di inadempimento imputato al sanitario, come in questo caso, non faceva venire meno i presupposti né della responsabilità della struttura ai sensi dell’art. 1228 cod.civ.,né della responsabilità della stessa struttura ai sensi dell’art. 1218 cod.civ., spettando alla struttura l’onere di dimostrare l’avvenuto esatto adempimento, “onere che va tenuto fermo anche in relazione ai rapporti interni tra condebitori solidali proprio al fine di verificare se la presunzione pro quota paritaria possa dirsi superata”; in assenza di prova (il cui onere grava sulla struttura sanitaria adempiente) in ordine all’assorbente responsabilità del medico intesa come grave, ma anche straordinaria, soggettivamente imprevedibile e oggettivamente improbabile malpractice medica, deve ritenersi che correttamente si applichi il principio presuntivo di cui è espressione l’art. 1298 cod.civ., comma 2.

La redazione giuridica

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Malpractice, le due facce della responsabilità sanitaria

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