Il requisito sanitario deve essere verificato con riferimento all’invalidità ‘previdenziale’, e non con riferimento all’invalidità civile come proposto dalla beneficiaria (Corte d’Appello di Torino, Sez. Lavoro, Sentenza n. 373/2021 del 16/06/2021-RG n. 118/2021)

Con ricorso diretto al Tribunale di Alessandria la beneficiaria ha convenuto l’INPS affermando, premesso di essersi vista riconoscere una invalidità civile superiore all’80%, di avere presentato domanda di pensione di vecchiaia con requisiti ridotti; tuttavia l’Istituto respingeva l’istanza per carenza dei requisiti fisici.

L’INPS, costituendosi contesta la domanda, rilevando che il requisito sanitario doveva essere verificato con riferimento all’invalidità ‘previdenziale’, e non con riferimento all’invalidità civile come veniva proposto nel ricorso.

Il Tribunale respinge il ricorso e compensa le spese di lite e la donna propone appello.

In sostanza, il primo Giudice, dato atto che l’unico motivo di contrasto tra le parti attiene all’esistenza del requisito sanitario, in ordine al quale la parte ricorrente fa valere gli accertamenti intervenuti in sede di invalidità civile, mentre l’INPS assume che dovrebbe essere accertato ai sensi dell’invalidità pensionabile ex art. 222/84, ha accolto la tesi dell ‘Istituto convenuto , respingeva il ricorso .

L’appellante contesta la decisione nella parte in cui ha ritenuto che la sussistenza del requisito sanitario sia stabilita sulla base delle risultanze degli accertamenti dell’invalidità previdenziale ex legge 222/1984, assume che i requisiti sanitari devono essere stabiliti con riferimento all’invalidità civile ex art. 2 legge 118/71.

L’appello è fondato.

” L’art. 1 del D. Lgs. 30.12.1992 n. 503 ha previsto, al 1° comma, che “Il diritto alla pensione di vecchiaia a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti è subordinato al compimento dell’età indicata, per ciascun periodo, nella tabella allegata ” e, poi, al comma 8°, che “L’elevazione dei limiti di età di cui al comma 1 non si applica agli invalidi in misura non inferiore all’80% “.

É noto che, sulla base della disciplina introdotta dal D. Lgs. n. 503/1992, sono stati progressivamente elevati i limiti di età per il pensionamento di vecchiaia e che, pertanto, dall’1.1.2000 possono accedere a detto trattamento gli uomini che abbiano compiuto 65 anni di età e le donne che ne abbiano compiuti 60 (laddove, prima del nuovo regime, il limite di età era costituito rispettivamente da 60 e da 55 anni).

Il nodo della causa attiene all’individuazione del ‘tipo’ di invalidità cui si debba fare riferimento per stabilire la sussistenza del requisito sanitario che consente la deroga ai limiti di età elevati con la normativa più recente.

Secondo l’INPS occorre utilizzare la nozione di invalidità previdenziale (o pensionabile) delineata dalla L. 222/84, mentre la difesa dell’appellante sostiene che si possa fare riferimento alla differente disciplina normativa concernente l’invalidità civile, svincolata dal concetto di capacità di lavoro, e quindi di guadagno.

Ebbene, evidenzia il Giudice d’appello, la giurisprudenza di merito da alcuni anni si è adeguata all’orientamento di legittimità ribadito con la sent. 9081 del 15.4.2013, che ha cassato proprio una pronuncia della Corte torinese.

La Suprema Corte, prendendo in esame l’unico motivo di impugnativa prospettato dal ricorrente, che denunciava la violazione dell’art.1, comma 8 D. Lgs. 503/92, osservando che la formulazione della norma era tale da includere anche la nozione di capacità lavorativa generica rilevante nell’ambito dell’invalidità civile, su fattispecie sovrapponibile a quella in esame, si è espressa con le seguenti argomentazioni:

“Ritiene il Collegio di non doversi discostare dal principio già fissato dal proprio ricordato arresto n. 13495/2003, ove è stato condivisibilmente rilevato che la percentualizzazione puntuale dell’invalidità in una misura fin ad allora estranea al regime pensionistico generale era già da sola significante dell’intento legislativo di riferirsi a una categoria di soggetti che non coincide con quella indicata nella L. n.222 del 1984, art.1, il quale accoglie una nozione di invalidità che fa consistere genericamente nella riduzione della capacità di lavoro a meno di un terzo. In altri termini, il riferimento allo stato di invalidità (nella percentuale fissa indicata) senza il richiamo alla riduzione della “capacità di lavoro in occupazioni confacenti alle sue attitudini” (capacità di lavoro specifica), rilevante a mente della L.n.222 del 1984, art.1 per il riconoscimento dell’assegno ordinario di invalidità, conduce a ritenere che l’applicabilità della vecchia normativa in tema di età pensionabile è stata genericamente disposta in favore di tutti i soggetti invalidi, anche se con capacità di lavoro e quindi, di guadagno, perché l’unico requisito posto dalla legge riguarda, appunto, la misura dell’invalidità, che non deve essere inferiore all’80% “.

L’appellante è soggetto invalida civile con inabilità riconosciuta all’80% nel 1999, senza che dagli atti di causa emerga un miglioramento delle sue condizioni di salute; in particolare, nella relazione medico -legale INPS del 16.10.2017, prodotta dall’Istituto appellato, è formulato unicamente un giudizio circa l’invalidità ex legge 222/84, senza che da esso si possa desumere che l’invalidità civile già accertata nel 1999 abbia registrato miglioramenti.

Pertanto, permanendo la percentuale di invalidità superiore all’80%, sussistono i presupposti per l’accoglimento della domanda.

Conseguentemente, l’Inps viene condannato a costituire e liquidare in favore dell’appellante la pensione di vecchiaia anticipata con decorrenza dalla data della domanda amministrativa e a pagare i ratei maturati, oltre interessi legali dal dovuto al saldo.

L’Inps viene anche condannato al pagamento delle spese di lite, liquidate in euro 8.832,00 per il primo grado e in euro 6.615,00 per il grado d’appello.

Avv. Emanuela Foligno

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