È configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente, o non più convivente, quando vi sia un vincolo nascente dalla filiazione?
La Corte di appello di Torino ha confermato la sentenza di primo grado che aveva condannato l’imputato per il reato di maltrattamenti in famiglia commesso nei confronti della propria ex compagna e della figlia minore, nonché per il delitto di lesioni aggravate commesso in danno della figlia. Con la medesima sentenza l’imputato era stato condannato al risarcimento del danno cagionato alle suddette da liquidarsi in sede civile nonché al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva.
L’imputato impugna la decisione in Cassazione
Deduce vizi di travisamento della prova e difetto di motivazione per avere la Corte erroneamente riferito le dichiarazioni della persona offesa secondo cui “le botte erano una costante” a un periodo di tempo diverso da quello cui esse attenevano. In particolare tali affermazioni, secondo la tesi difensiva dell’imputato, si riferivano ad un lasso di tempo precedente rispetto a quello contestato, collocabile tra il 2010-2011 e il 2013-2015.
Con altra separata censura lamenta che nel periodo oggetto di contestazione, ossia dall’anno 2016 fino al processo, l’imputato e la ex-compagna, non convivevano.
In buona sostanza, la difesa deduce l’insussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia per difetto dell’elemento della convivenza.
Il reato di maltrattamenti in famiglia
La Corte di appello, sul punto, ha richiamato l’orientamento secondo cui è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente, o non più convivente, con l’agente nel caso in cui quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dalla filiazione e ciò perché la presenza di un figlio minore attesta la persistenza di un vincolo familiare, conseguente alla sussistenza a carico di entrambi i genitori di obblighi di mantenimento e di formazione.
Oltre a ciò, ha rilevato che in ogni caso, l’imputato e la persona offesa, che non hanno mai contratto matrimonio, hanno convissuto fino a novembre 2016 e, poi, hanno ripreso la convivenza da gennaio 2019 fino al 5 marzo 2019, mentre nell’anno 2018 la frequentazione era legata alla gestione delle figlie, anche se talvolta l’imputato si fermava a dormire dalla persona offesa. Dunque, secondo la Corte di appello, per una parte, seppur minima, dell’intervallo di tempo oggetto di contestazione l’imputato e la persona offesa convivevano.
La Cassazione non dà continuità al principio richiamato dalla Corte di appello di adottare una interpretazione più restrittiva del concetto di “convivenza”, in linea con quanto ha rilevato con sentenza n. 98 del 2021 della Corte Costituzionale che ha rilevato l’impossibilità di esorbitare dal dato letterale, pena la violazione del principio di tassatività sancito dall’art 25 Cost.
In particolare la Corte Costituzionale ha osservato come il termine “convivenza” non possa essere dilatato fino a farvi rientrare casi in cui il rapporto affettivo si sia protratto per qualche mese e sia stato caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro, di fatto escludendo l’esistenza di una relazione idonea a far ritenere che la parte offesa sia appartenente alla medesima famiglia.
Il concetto di convivenza
Seguendo questi criteri, la giurisprudenza maggioritaria ha inteso il concetto di convivenza nell’accezione più ristretta, presupponente una radicata e stabile relazione affettiva e una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà e assistenza caratterizzata da una consuetudine di vita comune nello stesso luogo (Sez. 6, n. 38336 del 28/09/2022RV. 283939 – 01).
La Corte di Appello non ha fatto corretta applicazione di tali principi, in quanto ha ritenuto il reato sussistente per tutto il periodo oggetto di contestazione, mentre la convivenza è limitata ad alcuni mesi nell’anno 2016 e al periodo da gennaio marzo 2019.
Quindi la Cassazione annulla la sentenza impugnata sul punto, ergo il secondo motivo di ricorso, con cui l’imputato deduce che le dichiarazioni della persona offesa attengono a un periodo diverso da quello oggetto di contestazione, è fondato.
La sentenza di primo grado riporta le dichiarazioni della persona offesa, che non attengono specificatamente al periodo di convivenza nell’anno 2016 e che riguardano specifici episodi del febbraio/marzo 2019.
La sentenza di secondo grado viene quindi annullata con rinvio per nuovo giudizio in ordine alla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia in danno della compagna dell’imputata durante il periodo della convivenza (Corte di Cassazione, sesta penale, sentenza 17 marzo 2025, n. 10489).
Avv. Emanuela Foligno
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