La vicenda tratta di un infortunio mortale avvenuto in un cantiere edile il 25 ottobre 2001 in provincia di Belluno.
I familiari della vittima citano a giudizio la società committente dei lavori, il responsabile dei lavori e il datore di lavoro, allo scopo di vedere riconosciuto il risarcimento dei danni da loro patiti in conseguenza del decesso, e di quelli subiti dalla vittima a titolo iure hereditatis.
Nel giudizio veniva coinvolto anche l’Ingegnere che aveva redatto il Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC), la impresa appaltatrice dei lavori edili, che li aveva poi subappaltati ad una impresa individuale.
Il Tribunale (sent. del 13 giugno 2019) dichiarava responsabile soltanto la società subappaltante che veniva condannata a risarcire i familiari a tiolo iure proprio, negando invece il risarcimento iure hereditatis. Tale decisione veniva confermata dalla Corte di Appello.
L’impugnazione in Corte di Cassazione
Viene lamentato che:
- a) Da 5 giorni prima dell’infortunio mortale, il cantiere era gestito dagli stessi operai, poiché il loro datore di lavoro era rientrato in Romania. Inoltre gli operai agivano secondo criteri non corrispondenti a nessuna delle indicazioni contenute nei piani di sicurezza, pur lavorando a circa 7 metri da terra per la realizzazione di una nuova copertura del capannone industriale.
- b) Tutti e tre gli operai impiegati non erano cautelati dai mezzi obbligatori e camminavano sulle travi del tetto in costruzione, senza alcuna imbragatura a una linea vita centralizzata.
- c) I suddetti operai erano privi di contratto di lavoro, e non erano stati informati in generale sulle regole di edificazione, inclusa l’utilizzazione di una cesta auto-sollevante.
Ebbene, gran parte della censura sollevata critica direttamente la ricostruzione dei fatti e dunque non è ammissibile. Tuttavia, la residua parte di quanto censurato è fondata (Corte di Cassazione, III civile, ordinanza 11 marzo 2025, n. 6499).
La presenza del responsabile dei lavori e la vigilanza
Si tratta, nello specifico, della denuncia di assenza di motivazione e/o di motivazione apparente in relazione al ruolo di responsabile dei lavori, riguardo la sua presenza per vigilare con un’adeguata diligenza le modalità lavorative adottate dagli operai, soprattutto nel periodo dell’infortunio in cui il loro datore di lavoro era tornato in Romania.
Secondo i ricorrenti, il Giudice d’appello non avrebbe fornito motivazione sul fatto che gli operai, lasciati evidentemente senza guida, agivano secondo criteri non corrispondenti a nessuna delle indicazioni contenute nei piani di sicurezza, e in particolare camminavano sulle travi del tetto in costruzione senza imbragarsi e non restando entro la cesta autosollevante. In altri termini, non sarebbe stato spiegato in che cosa sia consistito l’adempimento del ruolo di vigilanza.
Il giudice d’appello, pertanto, avrebbe “trasferito” la responsabilità in capo all’Ingegnere redattore del piano di sicurezza e in capo al legale rappresentante della società committente, costruendo una motivazione radicalmente contraddittoria.
L’obbligo di controllo
Ebbene, nessun obbligo di controllo può essere inteso in modo così intenso da imporre una presenza giornaliera in cantiere da parte del responsabile della sicurezza della committente, soprattutto data la presenza di figure professionali cui era specificamente demandato il controllo della fase esecutiva, e dello stesso datore di lavoro che era altresì capocantiere.
Secondo i Giudici di secondo grado, la assenza del datore di lavoro, considerata la tipologia di lavori da eseguire, notoriamente intrinsecamente pericolosi, non avrebbe avuto alcuna incidenza sull’obbligo di controllo “giornaliero o comunque realmente frequente”. Invece dalla sentenza dei Giudici di appello sembra intendersi che vi erano altri soggetti incaricati del controllo.
Queste argomentazioni non seguono la logica più elementare: chi è obbligato a svolgere un’attività di controllo non trae alcun esonero dall’esistenza di altri soggetti con obblighi di controllo.
Sotto questo profilo, pertanto, la relativa censura a monte è del tutto fondata.
Il mancato riconoscimento del risarcimento iure hereditatis
Venendo ora, al mancato riconoscimento del risarcimento iure hereditatis, la argomentazione di diniego del Giudice di appello è totalmente incongrua.
Il secondo grado ha attribuito l’onere ai ricorrenti di dimostrare la qualità di erede, nel senso che questa non può desumersi dalla mera chiamata all’eredità, laddove la questione era insorta per la legittimazione attiva di chi aveva esercitato l’azione risarcitoria, e quindi non si era certo arrestato alla mera chiamata all’eredità. Ciò è del tutto estraneo ai principi della materia in quanto è stato più e più volte ribadito che spetta il danno iure hereditatis anche per i componenti che non facciano parte della c.d. “famiglia nucleare”.
La censura è fondata e viene accolta, con conseguente rinvio alla Corte di appello, in diversa composizione.
Avv. Emanuela Foligno