Il licenziamento in ragione di un cagionevole stato di salute, che ha determinato reiterate assenze dal luogo di lavoro, va qualificato come discriminatorio e ritorsivo, in quanto consiste in un’ingiusta e arbitraria reazione datoriale al legittimo esercizio del diritto del lavoratore di assentarsi per malattia

La ricorrente esponeva di essere stata assunta nel 2015 alle dipendenze della convenuta con mansioni di estetista part time per 25 ore settimanali. La donna soffriva di una patologia del sistema nervoso, con invalidità civile al 60%, che l’aveva costretta a cumulare reiterate assenze per malattia.

Nel 2018 la società datrice di lavoro la licenziava “per asserita necessità di riorganizzazione della struttura e riduzione del personale in ragione del risultato economico e della perdita di clienti, con effetti decorrenti dalla cessazione della malattia”.

La lavoratrice, pertanto, impugnava il licenziamento assumendone l’illegittimità sia per la genericità delle motivazioni addotte sia in ragione della natura palesemente discriminatoria, essendo stato comminato in diretta correlazione con la patologia dalla quale era affetta. Chiedeva, pertanto, che ne fosse dichiarata la nullità con applicazione delle conseguenze di cui all’art. 18 comma 1 l. 300/1970.

Il Tribunale di Milano (Sezione Lavoro, sentenza del 17/12/2019) ha accolto la domanda essendo emersi chiari elementi comprovanti la natura discriminatoria del licenziamento.

Il licenziamento discriminatorio

Come è noto, il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla presente legge. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti”.

Occorreva, pertanto, nel caso di specie, valutare se il licenziamento formalmente comminato alla lavoratrice in ragione dell’affermata sussistenza di un motivo di natura economica, potesse considerarsi attinto da motivo illecito, in quanto comminato in ragione della patologia medica dalla quale la stessa risultava affetta e che l’aveva costretta, in particolare nell’anno 2018, ad osservare diversi periodi di assenza dal lavoro per malattia.

Ebbene, il Tribunale di Milano ha anche ricordato che ai sensi dell’art. 15 l. 300/1970 è nullo in quanto discriminatorio qualsiasi atto diretto a licenziare un lavoratore a causa dell’handicap dal quale lo stessi risulti affetto.

Al riguardo la giurisprudenza di legittimità e di merito ha enunciato i seguenti principi di diritto:

“Il licenziamento in ragione di un cagionevole stato di salute, che ha determinato reiterate assenze dal luogo di lavoro, va qualificato come discriminatorio e ritorsivo, in quanto consiste in un’ingiusta e arbitraria reazione datoriale al legittimo esercizio del diritto del lavoratore di assentarsi per malattia. Le reiterate assenze possono configurare, valutate complessivamente le attività del lavoratore, una violazione della diligente collaborazione e, pertanto, giustificare il licenziamento. Tuttavia, la prova del grave inadempimento e della irricevibilità della prestazione incombono sul datore di lavoro” (Cassazione civile , sez. lav. , 17/06/2016 , n. 1259).

“Il licenziamento discriminatorio è quello fondato su motivo odioso: sulla volontà di escludere dalla compagine sociale un soggetto per il solo fatto di una sua caratteristica personale che lo contraddistingue, per un puro pregiudizio di non identità e omologazione che guarda alla condizione psico-fisica ovvero alla personalità complessivamente intesa del lavoratore. Di conseguenza, il solo fatto che il lavoratore sia stato assente per malattia e che ciò sia durato per un certo lasso temporale, non può, pur di fronte all’insussistenza del fatto materiale, portare alla conclusione che il licenziamento sia discriminatorio. A tal fine è necessario dimostrare un quid pluris, ovvero che proprio la malattia è stata la ragione unica, ma per tale conclusione non basta il solo fatto che il lavoratore fosse stato malato, né può giungersi a tale conclusione sulla sola base della accertata illegittimità del licenziamento” (Tribunale Milano , sez. lav. , 23/10/2018 , n. 2696).

La decisione

Alla luce di siffatti principi e delle prove acquisite in giudizio, il Tribunale meneghino non ha avuto dubbi nel dichiarare l’illegittimità del licenziamento impugnato perché fondato su un motivo illecito, ossia l’intento esclusivo di liberarsi di una dipendente “scomoda”, in quanto soggetta a frequenti assenze per malattia, con conseguente applicazione delle garanzie di cui all’art. 18 1° co. l. 300/1970.

La redazione giuridica

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