A distanza di 8 anni dall’entrata in vigore della Legge Gelli-Bianco, ancora i Giudici di merito sbagliano nell’applicare il principio di retroattività (Corte di Cassazione, III civile, ordinanza 07/03/25, n. 6134).
La vicenda tratta della asserita errata prestazione anestesiologica nel corso dell’intervento chirurgico e della errata somministrazione del farmaco Fentanest.
La Corte d’Appello di Venezia (sent. 23/05/23) ha confermato la condanna pronunciata dal primo Giudice nei confronti della ULSS per il risarcimento dei danni subiti dal paziente e dai suoi congiunti, conseguenti all’intervento sanitario dell’anestesista.
Nello specifico, i Giudici veneti hanno rilevato come, mentre la responsabilità della struttura sanitaria convenuta nei confronti dei danneggiati dovesse qualificarsi in termini contrattuali (ai sensi dell’art. 1218 c.c.), quella imputata all’anestesista dovesse ricondursi all’illecito aquiliano ex art. 2043 c.c. La struttura non ha fornito la prova che il proprio inadempimento fosse riconducibile a una causa alla stessa non imputabile (secondo lo schema di ripartizione degli oneri probatori tra le parti conforme alla fattispecie di cui all’art. 1218 c.c.), e gli attori non avevano fornito la prova certa per affermare una responsabilità del medico ai sensi dell’art. 2043 c.c.
La decisione della Corte di Cassazione
La ULSS invoca il vaglio della Corte di Cassazione, che accoglie buona parte delle doglianze.
Viene lamentata l’errata applicazione dell’art. 2697 c.c., con particolare riguardo all’accertamento della sussistenza di una specifica responsabilità a carico della struttura sanitaria convenuta, nonché errata ripartizione dell’onere della prova gravante sulle parti, non essendo emerso alcun profilo oggettivo di responsabilità imputabile alla struttura sanitaria ricorrente. Inoltre, non è mai stata accertata la sussistenza di alcun nesso di causalità tra le modalità di somministrazione del farmaco Fentanest da parte della dottoressa e il conseguente peggioramento delle condizioni della paziente.
È evidente che la ricorrente denuncia un preteso cattivo esercizio, da parte della Corte territoriale, del potere di apprezzamento del fatto sulla base delle prove selezionate, spingendosi a prospettare una diversa lettura nel merito dei fatti di causa, il che è inammissibile.
Ed ancora, i Giudici veneti non hanno violato la ripartizione degli oneri probatori tra le parti, avendo correttamente imposto alla struttura sanitaria la specifica dimostrazione del fatto (non imputabile alla struttura sanitaria) che avrebbe dovuto giustificare il contestato inadempimento contrattuale.
La retroattività della Legge Gelli-Bianco
La Corte veneta ha erroneamente applicato le norme previste dalla Legge n. 24/2017, in quanto tale disciplina è stata approvata ed è entrata in vigore in epoca successiva alla vicenda, e per aver altresì omesso di giustificare la ragione della ritenuta responsabilità della struttura sanitaria convenuta, dopo aver escluso la sussistenza di alcuna responsabilità a carico del medico anestesista.
Ebbene, viene ribadito che le norme poste dall’art. 7, comma 3, della Legge n. 24/2017 non hanno efficacia retroattiva e non sono applicabili ai fatti verificatisi anteriormente alla loro entrata in vigore.
L’intervento chirurgico di cui si assume l’errata prestazione è stato eseguito nell’anno 2010, e dunque al di fuori della Legge Gelli-Bianco.
Il fatto che i Giudici d’Appello abbiano condannato la struttura sanitaria e, contestualmente, rigettato la domanda nei confronti dell’anestesista, deve ricondursi alla ritenuta applicabilità della Legge n. 24/2017 alla responsabilità dell’anestesista, con la conseguente inversione del rischio probatorio correlato all’omessa identificazione e prova del fatto che avrebbe dovuto ricondursi al danno denunciato dalla paziente.
Le conclusioni della Cassazione
Tuttavia, tale errore sulla posizione dell’anestesista non si è tradotto in un errore sulla corretta valutazione della responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, perché una volta comprovata la sussistenza del nesso di causalità tra l’intervento dell’anestesista e il danno, il secondo Giudice non ha fornito la specifica dimostrazione del fatto al quale avrebbe dovuto ricondursi la ragione del contestato inadempimento.
Anche in punto di quantum liquidato, la Suprema Corte osserva che il secondo grado ha espressamente rilevato la mancata proposizione, da parte della struttura sanitaria ricorrente, di alcuna impugnazione sulla liquidazione del risarcimento.
Venendo al ricorso incidentale dei danneggiati, viene censurato che la Corte avrebbe omesso di rilevare come la struttura sanitaria avversaria si fosse limitata a contestare, in appello, la sola sussistenza del nesso di causalità tra il comportamento dei sanitari e il danno denunciato dalle controparti, senza contestare nulla in ordine alla qualificazione giuridica del fatto e dell’azione, nonché al riparto dell’onere della prova.
Il riparto dell’onere della prova
Questa ultima doglianza è fondata, essendosi, come già detto, l’intervento chirurgico svolto nell’anno 2010. I Giudici dovevano applicare la disciplina anteriore alla Legge n. 24/2017, secondo cui, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice (e dunque del sanitario) provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione.
Avendo la Corte di Venezia ritenuto comprovata la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta dell’anestesista e l’evento dannoso, avrebbe dovuto procedere all’esame dell’eventuale dimostrazione, da parte dell’anestesista, della riconducibilità dell’inadempimento a uno specifico fatto a lei non imputabile.
Conclusivamente viene disposta la cassazione della sentenza impugnata con il conseguente rinvio alla Corte d’Appello di Venezia, in diversa composizione.