Accolto il ricorso di un uomo accusato di aver letto una lettera raccomandata diretta alla ex convivente, precedentemente vittima di maltrattamenti

Con la sentenza n. 29961/2020 la Cassazione si è pronunciata sul ricorso di un uomo condannato in sede di merito in ordine al reato di cui all’art. 616 c.p. (violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza), per aver preso cognizione del contenuto di una lettera raccomandata spedita dalla Agenzia delle Entrate e diretta alla ex convivente che in quel momento, dopo aver sporto denuncia di maltrattamenti nei suoi confronti, era ospite presso una struttura protetta.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, l’imputato  deduce violazione di legge in punto di diniego della causa di punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. per particolare tenuità del fatto.

La Corte di appello aveva negato la sussistenza dei presupposti di tale istituto, sulla ritenuta abitualità della condotta da collegarsi “a quelle per le quali il ricorrente è chiamato a rispondere in altra sede giudiziaria” sempre ai danni della persona offesa.

A detta del ricorrente, tuttavia, al Collegio distrettuale sarebbe sfuggito il fondamentale dato cronologico: i fatti di maltrattamento oggetto del diverso procedimento si arrestavano, infatti, a un periodo antecedente alla condotta contestata, che, dunque, non era ricollegabile, sotto alcun profilo, ai fatti precedenti.

L’imputato riteneva di essere incorso in un errore scusabile, commesso in buona fede, e privo di conseguenze considerato che lui stesso si era attivato per consegnare la lettera alla destinataria.

L’uomo eccepiva poi il requisito dell’abitualità, in quanto non venivano in rilievo “reati della stessa indole”.

La Suprema Corte ha ritenuto fondate le argomentazioni proposte, accogliendo il ricorso.

Gli Ermellini hanno spiegato che, in base agli stessi elementi di fatto ricavabili dalla sentenza impugnata, potevano ravvisarsi i presupposti di applicabilità dell’art. 131-bis c.p., in conformità con gli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità.

In particolare l’art. 131-bis c.p., comma 1 stabilisce che: “nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, comma 1, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”.

Nel caso in esame la Corte di appello aveva riconosciuto la sussistenza dei presupposti di applicabilità dell’art. 131-bis c.p. (limiti edittali e particolare tenuità dell’offesa) ad eccezione di quello della “abitualità”, sul rilievo che, in altro procedimento, l’imputato era stato rinviato a giudizio per i delitti di maltrattamenti e di lesione personale.

Ma l’art. 131-bis c.p., comma 3 – hanno precisato dal Palazzaccio –  stabilisce che il comportamento è abituale nel caso in cui, tra gli altri, l’autore “abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità”.

Tale specifica ipotesi di “comportamento abituale” postula, a sua volta, due requisiti: la commissione di più reati; la identità di indole.

Al proposito le Sezioni Unite della Cassazione hanno chiarito che “non si parla di condanne ma di reati” e che “il tenore letterale lascia intendere che l’abitualità si concretizza in presenza di una pluralità di illeciti della stessa indole (dunque almeno due) diversi da quello oggetto del procedimento nel quale si pone la questione dell’applicabilità dell’art. 131-bis”.

In altri termini, il terzo illecito della medesima indole dà legalmente luogo alla serialità che osta all’applicazione dell’istituto; la pluralità dei reati, inoltre, può concretarsi non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche nel caso in cui gli illeciti si trovino al cospetto del giudice che, dunque, è in grado di valutarne l’esistenza.

Sulla identità di indole i Giudici di Piazza Cavour hanno evidenziato che, in base all’art. 101 c.p. “agli effetti della legge penale, sono considerati reati della stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli che, pur essendo preveduti da disposizioni diverse di questo codice ovvero da leggi diverse, nondimeno, per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinarono, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni”.

Nella specie si procedeva solamente per il reato di cui all’art. 616 c.p.. La Cassazione non ha ritenuto convincente la correlazione, tracciata dalla Corte di appello, tra l’apertura di una missiva proveniente dalla Agenzia delle Entrate rispetto ai pregressi fatti di maltrattamenti e lesioni (oggetto di un decreto di rinvio a giudizio che la Corte di appello si limitava a citare senza compiere nessuna concreta disamina incidentale delle relative circostanze di fatto,).

In conclusione il Supremo Collegio non ha ravvisato, in concreto, quei caratteri fondamentali comuni tra reato di cui all’art. 616 c.p. e reati oggetto di altro procedimento idonei ad integrare quella identità di indole, ritenuta dal giudice di merito unico elemento ostativo al riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p.. Da lì la decisione di annullare senza rinvio la sentenza impugnata.

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