Nel giudicare la congruità di una sanzione disciplinare, il giudice non può prescindere dalla verifica di ogni elemento caratterizzante il fatto concreto per stabilire se il licenziamento sia legittimo e se si sia effettivamente verificata la compromissione del vincolo fiduciario

La vicenda

La vicenda traeva origine dal licenziamento intimato da una casa di cura ad una propria dipendente per aver irregolarmente fruito del congedo straordinario di cui all’art 42 comma 5 D.Lgs 15172001 concesso dall’Inps per consentirle di prestare assistenza alla madre portatrice di handicap in situazione di gravità.

La società datrice di lavoro le aveva contestato l’attestazione di dati non corrispondenti alla reale situazione di fatto, non essendo ella assolutamente convivente con il soggetto portatore di handicap e non avendo prestato – neanche temporaneamente – assistenza alla madre, contravvenendo dunque alle finalità del congedo fruito.

La società aveva dunque ravvisato la gravità del comportamento posto in essere dalla sua dipendente, perché contrario ai principi di correttezza e buona fede, e ne aveva rimarcato l’assoluto disvalore sociale attesa la natura onerosa del congedo straordinario di cui aveva irregolarmente fruito, corrisposto in in via anticipata dal datore di lavoro, ma sostenuto dall’intera collettività, in quanto a carico dell’Inps.

L’impugnativa del licenziamento

Con ricorso al Tribunale di Bari la lavoratrice aveva impugnato il licenziamento perché illegittimamente irrogato, non sussistendo, a suo dire, il fatto contestatole e ricorrendo invece motivazioni di tipo ritorsivo a giustificazione della risoluzione del rapporto di lavoro; richiamando, al riguardo, le vicende intercorse con la datrice di lavoro e il processo di emarginazione che la stessa società aveva posto in essere nei suoi confronti che già erano oggetto di altri procedimenti giudiziari, e sostenendo al contrario, di aver costantemente assistito la madre, nel periodo in contestazione.

Il Tribunale di Bari negava al licenziamento la natura ritorsiva, poiché, avendo la società indicato nell’uso irregolare della fruizione del congedo straordinario la ragione del recesso, ogni eventuale motivo ritorsivo rivendicato dalla lavoratrice giammai avrebbe potuto essere ‘unico’ motivo determinante il recesso; mancava, in altre parole, il requisito richiesto dalla giurisprudenza al fine della illegittimità del licenziamento per ritorsività.

Infine, giudicava proporzionale la sanzione irrogata rispetto alla condotta contestata , in quanto l’insussistenza di un rapporto di reale convivenza tra la beneficiaria del congedo e la madre invalida era senz’altro un comportamento contrario ai valori dell’ordinamento come desumibili dalla coscienza sociale “in quanto la lavoratrice che indebitamente fruisce del congedo straordinario …. scarica il costo di tali diverse attività sull’ente previdenziale, anche relativamente agli oneri contributivi, quindi sull’intera collettività, costringendo ingiustamente la datrice di lavoro ad organizzare diversamente il lavoro nella struttura ospedaliera”.

Avverso la suddetta sentenza, la donna ha proposto reclamo, ai sensi dell’art. 1, comma 58, legge n. 92/2012, chiedendo l’integrale riforma della sentenza impugnata.

A detta della ricorrente il giudice di primo grado non aveva ben attenzionato il profilo della proporzionalità tra fatto e sanzione e al tempo stesso, aveva omesso di valutare l’assenza di qualsivoglia elemento di intenzionalità.

Preliminarmente, la Corte d’appello pugliese ha ribadito che nel giudicare della congruità di una sanzione disciplinare ai sensi degli artt. 2106 e 2119 c.c., il giudice non può prescindere dalla verifica di ogni elemento caratterizzante il fatto concreto, e cioè delle modalità con cui ebbero a svolgersi i fatti illeciti contestati, per poter valutare adeguatamente la gravità della mancanza, e, in particolare, in caso di licenziamento, per stabilire – ove del caso tenendo conto anche dell’entità del pregiudizio patrimoniale – se si sia effettivamente verificata la compromissione del vincolo fiduciario, la quale non consegue a qualsiasi inadempimento del lavoratore, pur rilevante sul piano disciplinare (Cass. 1892/00).

La valutazione sulla congruità della sanzione

Nella valutazione della proporzionalità fra addebito e recesso rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali. In questa prospettiva la valutazione della congruità della sanzione espulsiva dev’essere effettuata non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, tra cui rilevano la configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, l’intensità dell’elemento intenzionale, il grado di affidamento richiesto dalle mansioni, le precedenti modalità di attuazione del rapporto, la durata dello stesso, l’assenza di pregresse sanzioni, la natura e la tipologia del rapporto medesimo (Cass. 2013/2012).

Ciò posto, la ricorrente, al fine di ottenere la dichiarazione di sproporzione tra fatto e sanzione, aveva compiuto deduzioni inappropriate, spostando il focus dell’attenzione su un aspetto che non era quello oggetto di indagine.

La lavoratrice aveva infatti invocato l’assenza di intenzionalità della condotta ricollegandola alla omessa comunicazione al datore di lavoro del mutamento del luogo in cui avrebbe convissuto con sua madre. Tale affermazione secondo i giudici della corte pugliese, non faceva altro che confermare l’intenzionalità della violazione.

La decisione

In altre parole, la ricorrente, imputandosi il fatto di non aver convissuto con sua madre (e, perciò, di aver omesso di darle assistenza) aveva ammesso indirettamente di essersi assentata dal lavoro in modo ingiustificato e senza che vi fosse il titolo legale, ossia l’assistenza al disabile.

Per queste ragioni la pronuncia di primo grado non poteva che essere confermata perché conforme a normativa “nell’escludere che la violazione contestata alla lavoratrice potesse essere assimilata all’ipotesi contemplata all’art. 41 lett. j) CCNL Case Cura Personale non medico, ovverosia al caso in cui il dipendente ometta di comunicare all’Amministrazione ogni mutamento, anche di carattere temporaneo dei dati di cui all’art. 12 del presente CCNL, ovvero rilasci autocertificazioni non veritiere”.

In definitiva il reclamo è stato respinto (Corte d’Appello di Bari, n. 118/2020).

La redazione giuridica

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