Nella liquidazione del danno alla salute secondo equità si deve assicurare l’adeguatezza del risarcimento all’utilità effettivamente perduta e l’uniformità dello stesso in situazioni identiche

La vicenda trae origine dal differente criterio di liquidazione del danno operato dai due gradi di merito relativamente all’azione intentata dai familiari di un soggetto deceduto. 

La Suprema Corte (Cass. Civ., sez. III, sentenza n. 12913/2020) con questa interessante e impeccabile pronunzia tratta dei criteri della liquidazione del danno alla salute secondo equità e specifica che “si devono assicurare l’adeguatezza del risarcimento all’utilità effettivamente perduta e l’uniformità dello stesso in situazioni identiche; perciò, qualora tali scopi non siano raggiungibili attraverso il criterio cd. “tabellare”, venendo in questione un’ipotesi di danno biologico non contemplata dalle tabelle adottate, il Giudice di merito è tenuto a fornire specifica indicazione degli elementi della fattispecie concreta considerati e ritenuti essenziali per la valutazione del pregiudizio, nonché del criterio di stima ritenuto confacente alla liquidazione equitativa, anche ricorrendo alle tabelle come base di calcolo, ma fornendo congrua rappresentazione delle modifiche apportate e rese necessarie dalla peculiarità della situazione esaminata”.

Nello specifico la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito e considerato corretto il criterio di liquidazione del danno biologico applicato dalla Corte d’Appello che nell’impossibilità di applicare il valore tabellare relativo all’età del danneggiato al momento del sinistro stradale e alla sua aspettativa di vita-media, ha fatto riferimento alla durata reale della vita del soggetto e ha liquidato il risarcimento avendo riguardo al valore monetario tabellare giornaliero previsto per l’inabilità temporanea assoluta moltiplicato per il numero di giorni di esistenza in vita.

La vicenda approda in Cassazione dalla Corte d’Appello di Ancona, ove era stata impugnata la pronunzia di primo grado resa dal Tribunale di Macerata nel 2010 che condannava in solido il responsabile del sinistro e la Compagnia d’assicurazione.

La Corte d’appello di Ancona con sentenza del 2017 confermava la condanna al risarcimento del danno patrimoniale e del danno biologico subito dalla donna deceduta, in quanto la durata in vita della stessa dalla data del sinistro si protraeva per 810 giorni in stato di coma e risultava dunque certamente sussistente quell’apprezzabile “lasso di tempo” tra la lesione e la morte necessario per il ristoro dei danni.

La Corte d’Appello, tuttavia, correggeva il criterio di liquidazione utilizzato dal Tribunale di Macerata in quanto riteneva corretto commisurare l’entità del danno alla durata della vita effettiva ed al valore monetario “pro die” della “inabilità temporanea assoluta” e non invece ai valori tabellari previsti per la “invalidità permanente”.

In buona sostanza la Corte d’Appello rilevava che il Tribunale di Macerata liquidava il danno non patrimoniale secondo le Tabelle di Milano del 2006 e in tale anno corrispondeva un acconto di € 100 mila,  tenendo conto del grado massimo di invalidità permanente e della aspettativa di vita media del soggetto leso, di anni 87 al tempo del sinistro, in quanto la morte, intervenuta nelle more del processo alla età di 90 anni, non era da ritenersi eziologicamente riconducibile al sinistro stradale, ed aumentava del 50% il valore del punto base, per l’accertato danno morale”.

Il Tribunale di Macerata riconosceva complessivamente l’importo di € 495.276,17, da cui andavano detratti gli acconti percepiti.

La Corte di merito considerava errata tale determinazione e ricalcolava il danno biologico utilizzando come criterio, piuttosto che i valori tabellari corrispondenti al grado del 100% di invalidità permanente di un soggetto di anni 87, un differente e distinto calcolo più idoneo ad esprimere il valore del danno in considerazione della effettiva durata della vita della danneggiata.

Nello specifico la Corte d’Appello utilizzava il valore massimo tabellare giornaliero corrispondente alla “inabilità temporanea assoluta” (Euro 145,00: Tabelle milanesi anno 2006, incrementato fino ad Euro 150,00 in dipendenza del periodo trascorso dal 2006 fino alla data di elaborazione delle più recenti Tabelle milanesi edite nel 2014), e adeguava detto importo alla peculiarità del caso concreto, tenuto conto della massima “intensità ed entità del danno” della donna rimasta in coma, incrementandolo del 50% (misura massima prevista in Tabella).

Dopodichè procedeva alla “aestimatio”, moltiplicando tale importo per il numero di 810 giorni in cui era rimasta in vita la danneggiata (dalla data del sinistro (OMISSIS) fino al decesso avvenuto nel marzo 2008).

Da evidenziarsi, per completezza, che entrambi i Giudici di merito escludevano la riconducibilità eziologica del decesso al sinistro stradale.

In definitiva in applicazione dei due differenti criteri di calcolo sopra indicati si addiveniva all’importo di € 595.276,17 liquidato dal Tribunale di Macerata e all’importo di € 182.250,00 liquidato dalla Corte d’Appello di Ancona.

L’elemento che causa una così sensibile differenza nell’importo complessivamente spettante ai familiari della deceduta è dato dalla durata della vita effettiva della danneggiata che, secondo il Tribunale, non assumeva rilevanza, dovendo provvedersi alla liquidazione del danno in base alle Tabelle milanesi che quantificavano la perdita della salute in relazione alla età della vittima al momento del sinistro ed alla aspettativa di durata della vita media (definita secondo criteri di probabilità statistica, riferiti alla intera popolazione); mentre secondo la Corte territoriale, era proprio il sopravvenuto decesso a definire la dimensione del danno biologico, nel senso che la diminuzione della capacità di agire della danneggiata risultava esattamente stimabile in concreto, non occorreva pertanto fare ricorso a criteri statistici essendo noto il momento in cui gli effetti pregiudizievoli invalidanti erano venuti a cessare, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale non poteva prescindere dalla effettiva durata della condizione minorativa del soggetto, condizione definitivamente venuta meno con il decesso.

Secondo gli Ermellini è corretto e conforme ai consolidati principi di diritto il criterio utilizzato dal secondo Giudice di merito, ovverosia “ai fini della liquidazione del danno biologico, l’età in tanto assume rilevanza in quanto col suo crescere diminuisce l’aspettativa di vita, sicchè è progressivamente inferiore il tempo per il quale il soggetto leso subirà le conseguenze non patrimoniali della lesione della sua integrità psicofisica. Ne consegue che, quando invece la durata della vita futura cessa di essere un valore ancorato alla probabilità statistica e diventa un dato noto per essere il soggetto deceduto, allora il danno biologico (riconoscibile tutte le volte che la sopravvivenza sia durata per un tempo apprezzabile rispetto al momento delle lesioni) va correlato alla durata della vita effettiva, essendo lo stesso costituito dalle ripercussioni negative (di carattere non patrimoniale e diverse dalla mera sofferenza psichica) della permanente lesione della integrità psicofisica del soggetto per l’intera durata della sua vita residua”.

In definitiva, il danno biologico si risolve in una diminuzione/soppressione delle capacità di agire nel quotidiano e non può che essere riferito al tempo in cui perdura la vicenda del soggetto interessato.

Intervenuta la morte, con il venire meno della esistenza del soggetto, viene a cessare anche il suo stato di incapacità biologica, e dunque il pregiudizio al bene salute.

Ipotizzare, quindi, che il ristoro del danno dovrebbe ricomprendere anche il pregiudizio scaturente da una valutazione, fondata sulla proiezione futura dello “status” invalidante, assunta con riferimento al momento anteriore al decesso, e fondata sulla statistica relativa alla aspettativa media di vita della popolazione italiana, è totalmente errato poichè verrebbe a riconoscersi l’acquisto di un credito risarcitorio maturato su di una aspettativa di vita che, nella realtà, si è rivelata essere errata.

Il ricorso viene respinto e confermata la pronunzia della Corte d’Appello di Ancona.

Avv. Emanuela Foligno

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