La particolare vicenda di asserita malpractice analizzata è caratterizzata dall’espletamento di due CTU contrastanti che giungono a risultati opposti.
Il caso
Secondo quanto narrato dai familiari, la paziente si recava all’ospedale di Oristano, presso il pronto soccorso, alle ore 9 del 16 febbraio 2007 con febbre ed algie muscolari, dolori al torace e tosse. I sanitari la sottoponevano ad esami inadeguati, con ritardo della diagnosi della patologia in atto e conseguente inidonea e tempestiva terapia, nonché ritardato trasferimento al reparto di rianimazione.
Il Tribunale di Tempio Pausania, con sentenza del dicembre 2015, ha parzialmente accolto la domanda di risarcimento dei familiari della paziente deceduta. I giudici di primo grado avevano condannato l’ASL al pagamento della complessiva somma risarcitoria, a titolo di danno non patrimoniale e di rimborso per spese funerarie, di 586.655,78 euro, oltre accessori, con rigetto della pretesa risarcitoria per danno patrimoniale.
La Corte di Appello di Sassari, invece, ha rigettato la domanda.
Le motivazioni della Corte di Appello
La Corte osservava che:
- a) la CTU non è stata dichiarata nulla dal Tribunale; a.1) “la valutazione del caso clinico” non poteva, quindi, prescindere “da una comparazione delle risultanze di indagine contenute nei due elaborati”, il secondo redatto dalla professoressa Ce., nominata dopo la revoca dei primi consulenti tecnici, e su cui, invece, aveva unicamente basato la propria decisione il Tribunale.
- b) le due consulenze, pur giungendo a “esiti diametralmente contrapposti quanto al profilo della responsabilità dei sanitari e dell’evitabilità dell’evento”, traevano “spunto da un dato condiviso emergente dagli atti, ossia la derivazione del decesso della signora da sepsi poi evoluta in shock settico”.
- c) la consulenza della prof.ssa Ce. era “inficiata da un approccio metodologico errato” – che rendeva “non condivisibili le conclusioni” raggiunte -, ossia “di aver valutato la condotta dei sanitari che avevano avuto in cura la paziente muovendo da un’ipotesi diagnostica formulata a posteriori…, cioè individuando in primo luogo la miocardite come causa della morte (così come accertata a seguito di indagine sui tessuti provenienti dall’esame post mortem della paziente…) e, di conseguenza vagliando la condotta dei medici intervenuti in un quadro di SIRS (risposta infiammatoria sistemica) evoluto in pochissime ore dall’ingresso in pronto soccorso a shock settico, secondo le linee guida… presupponenti la conoscenza della natura infettiva del focolaio, quindi escludendo un’eziologia non infettiva e astraendo, nonostante il richiamo, dalla gravità del quadro clinico in concreto presentato dalla paziente all’ingresso in pronto soccorso, già caratterizzato da sintomi di sepsi grave in rapidissima evoluzione verso lo shock settico”. c.1.) “in tale errata prospettiva metodologica il consulente ha dunque estrapolato, dai dati contenuti nella cartella clinica, quelli sospetti della presenza di infezione del miocardio ed ha ricostruito quale avrebbe dovuto essere corretto operato dai medici in presenza di sospetto di sepsi di natura infettiva sostenuta da miocardite, indicando quali esami strumentali diagnostici erano stati omessi” e “giungendo a rilevare anche l’assenza di una corretta terapia … ed imputando ai sanitari anche un ritardo nel trasferimento in un centro di livello superiore che avrebbe consentito di seguire una diagnostica più evoluta e un trattamento più intensivo”.
- d) la consulente, come detto, ha “omesso di contestualizzare le modalità con le quali l’intervento dei sanitati è avvenuto” e “soprattutto ha omesso di valutare il quadro clinico concreto, seppure richiamato nell’elaborato, al momento dell’arrivo della paziente al pronto soccorso e al momento del suo ricovero nel reparto di Medicina, il quale già risultava gravissimo è indicativo di una condizione di salute apprezzabilmente compromessa in rapida evoluzione ingravescente verso lo shock settico rispetto alla quale, secondo un giudizio ex ante, avrebbe dovuto essere valutata la condotta dei medici”.
- e) la situazione clinica della donna “era stata ben tenuta a mente dal collegio dei periti”, i quali, con elaborato del tutto condivisibile aveva evidenziato come “l’intervento dei sanitari …, per quanto corretto e tempestivo fosse stato, non poteva interrompere l’inarrestabile progredire di un quadro patologico ormai in fase avanzatissima, qual è quello di uno shock sino a quel momento non trattato”, per cui “qualunque trattamento diagnostico terapeutico non avrebbe, con alto grado di probabilità, scongiurato il decesso della povera donna”.
- f) “tale rilievo (considerevole gravità del quadro clinico all’ingresso in ospedale) oltre che riscontrabile nelle indicazioni della cartella clinica … risulta obiettivamente supportato dalla brevissima sopravvivenza della donna, di solo 10 ore dal momento del ricovero, elemento quest’ultimo fortemente indicativo di una profonda e irreversibile compromissione delle funzioni vitali già al momento dell’ingresso nella struttura sanitaria”.
- g) inoltre, dalla “lettura della cartella clinica, a differenza di quanto sostenuto in sentenza e dalla professoressa Ce., non emergono inadeguate commissioni diagnostiche e terapeutiche che possano porsi come causa del decesso ormai conseguenze irreversibile dello Stato patologico avanzato”, risultando “a fini diagnostici … una richiesta con urgenza di un’indagine radiografica del torace”, nonché “eseguiti diversi esami ematici, esami elettrocardiografici ed al contempo, conformemente alle linee guida e raccomandazioni all’epoca dei fatti, era somministrata una terapia di supporto a base di antibiotici ad ampio spettro, isotropi e cortisone preceduta da somministrazione di liquidi, risultata del tutto inefficace a fronte del rapido aggravamento della paziente”.
- h) a fronte delle “gravi condizioni cliniche descritte – gravità desunta dai risultati degli esami ematochimici e dai valori pressori – ossia in presenza di quadro patologico indubitabilmente avanzatissimo di shock settico” la “esecuzione di una emogasanalisi, la cognizione dell’esito del radiogramma toracico, ovvero la ripetizione degli esami di laboratorio già eseguiti o l’esecuzione di altri esami ulteriori e mirati … pur in astratto raccomandabile ma neppure obiettivamente realizzabile nell’arco temporale ristretta in cui è intervenuto il decesso, nel concreto non avrebbe comunque consentito la sopravvivenza della paziente come correttamente affermato dal collegio peritale che, con corretto approccio metodologico, muovendo proprio da quel quadro clinico grave della paziente all’ingresso in ospedale, la formula del proprio giudizio di assenza di causalità e di responsabilità in capo ai medici”.
- i) pertanto, tenuto conto del principio per cui “il medico è tenuto ad un comportamento informato al criterio della diligenza del buon padre di famiglia, consistente nella perizia l’uomo medio relazionata alla natura dell’attività esercitata, ai sensi dell’art. 1176, 2° comma, nonché alla specifica situazione in cui egli opera”, poteva affermarsi che “rispetto alle gravissime condizioni cliniche acclarate da tutti i consulenti (descritte uniformemente in entrambe le perizie: SIRS in rapida evoluzione a shock settico) la condotta dei medici della struttura ospedaliera, in termini di esami diagnostici e terapia di supporto, sia stata adeguata e conforme allo standard di condotta esigibile all’epoca, tenuto conto anche delle condizioni oggettive della struttura in cui hanno operato, né un immediato trasferimento nella struttura di Olbia ritenuta di livello più adeguato nel reparto di rianimazione, sempre in ragione dell’ avanzatissimo quadro patologico della paziente, avrebbe potuto in termini probabilistici, escludere il decesso della donna, come condivisibilmente affermato nel primo elaborato peritale”.
Il ricorso in Cassazione
Anche in Cassazione (che rigetta tutte le censure), viene reiterata l’eccezione di nullità della prima CTU, avanzata dagli attori che ha condotto il Tribunale a disporre la revoca dei nominati consulenti tecnici ex art. 196 c.p.c., eccezione poi reiterata in sede conclusionale di primo grado e, quindi, in appello (Cassazione Civile, sez. III, 20/05/2024, n.13952).
Gli Ermellini, visto che il giudizio è stato introdotto nel 2008, pongono in evidenza l’applicazione del principio di diritto secondo cui, in tema di CTU, nel regime precedente la modifica dell’art. 195 c.p.c. ad opera della L. n. 69 del 2009, nessuna norma del codice di rito impone al consulente di fornire ai consulenti di parte una “bozza” della propria relazione, in quanto, al contrario, le parti possono legittimamente formulare critiche solo dopo il deposito della relazione, atteso che il diritto di esse ad intervenire alle operazioni tecniche anche a mezzo dei propri consulenti deve essere inteso non come diritto a partecipare alla stesura della relazione medesima, che è atto riservato al Consulente d’ufficio, ma soltanto all’accertamento materiale dei dati da elaborare.
CTU: nullità o irregolarità?
Ergo, come correttamente deciso dalla Corte di appello, non è affetta da nullità, ma da mera irregolarità, che resta irrilevante ove non tradottasi in nocumento del diritto di difesa, la CTU qualora il Consulente, pur disattendendo le prescrizioni del provvedimento di conferimento dell’incarico peritale, abbia omesso di mettere la sua relazione a disposizione delle parti per eventuali osservazioni scritte, da consegnargli prima del deposito della relazione stessa.
In altri termini, la prima CTU non ha costituito, nell’impianto argomentativo che sorregge la decisione, elemento di adesione acritica per le conclusioni raggiunte dal Giudice di appello, bensì conforto di un ragionamento condotto su dati convergenti tra i due elaborati e mettendo in risalto le aporie del secondo elaborato rispetto a quegli stessi anzidetti dati.
Le critiche rivolte alla decisione di appello, ad ogni modo, non si confrontano con la ratio decidendi: viene lamentata violazione dell’art. 1176 c.c., invece la Corte territoriale ha fatto espressa applicazione proprio del secondo comma di detta disposizione, ossia del principio di diligenza professionale, “relazionata alla natura dell’attività sanitaria esercitata”.
Non è colta la ratio della decisione neppure ove ci si duole del riferimento alle condizioni inadeguate della struttura sanitaria, che non solo è affermazione del Giudice di secondo grado posta a mero supporto della complessiva motivazione in ordine alla condotta esigibile dei sanitari, ma che, in via assorbente, è comunque superata dalla ratio concernente l’assenza del nesso di causalità tra operato dei medici e decesso della paziente, riconducibile al gravissimo quadro clinico che la stessa già presentava all’ingresso in ospedale.
Avv. Emanuela Foligno