Il delitto di maltrattamenti in famiglia non è integrato soltanto dalle percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche dagli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità
La Corte di appello di Caltanissetta aveva condannato l’imputato alla pena di due anni e tre mesi di reclusione per il delitto di maltrattamenti in famiglia.
L’accusa era quella di aver maltrattato la moglie, umiliandola e costringendola a tollerare una convivenza more uxorio sotto lo stesso tetto con la sua amante; inoltre, minacciandola, percuotendola e lesinandole il denaro per fare fronte ad esigenze primarie, tanto da renderle la vita particolarmente penosa e dolorosa.
La sentenza della corte d’appello siciliana è stata impugnata con ricorso per cassazione. A detta della difesa vi sarebbe stata la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla sussistenza del reato contestato.
I motivi di ricorso
Nel corso del processo a suo carico, la persona offesa non era stata in grado di riferire alcun episodio specifico di ingiurie, minacce o violenza, limitandosi ad affermare di essere stata trattata male in alcune occasioni e di avere ricevuto qualche schiaffo.
L’imputato era andato a vivere con un’altra donna in autonomo appartamento chiedendo anche la separazione dalla moglie, “la quale però aveva opposto un netto rifiuto”. Il figlio aveva riferito che all’interno dell’immobile vi erano due appartamenti con accessi autonomi, cioè porte diverse collegate da una scala comune; tale specificazione – a detta della difesa – bastava per far cadere l’accusa relativa alla umiliazione nascente da una convivenza more uxorio sotto lo stesso tetto.
L’imputato viveva in una condizione di estremo disagio e in tale situazione faceva vivere la famiglia ma, secondo la difesa, non aveva mai posto in essere comportamenti idonei a imporre alla moglie un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile.
Tali argomenti non hanno convinto i giudici della Suprema Corte che hanno rigettato il ricorso dichiarandolo inammissibile (Corte di Cassazione, Sesta Sezione Penale, sentenza n. 35677/2020).
Le doglianze difensive, oltre ad essere ripetitive in quanto già dedotte in appello, erano altresì inammissibili, in quanto volte ad ottenere una diversa valutazione dei fatti contestati; operazione, come noto, non consentita nel giudizio di legittimità.
Il reato di maltrattamenti in famiglia
Secondo il costante insegnamento giurisprudenziale, il delitto di maltrattamenti in famiglia non è integrato soltanto dalle percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche dagli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, quali ad esempio, come nel caso di specie, la costrizione della moglie a sopportare la presenza di una concubina (Sez. 6, n. 44700 del 08/10/2013).
È stato anche chiarito che il delitto di cui all’art. 572 c.p., è configurabile anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla affiliazione (Sez. 6, n. 3087 del 19/12/2017; Sez. 6, n. 33882 dell’08/07/2014; Sez. 2, n. 30934 del 23/04/2015).
La separazione legale e, a maggior ragione la separazione di fatto, lasciano, infatti, integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonchè di collaborazione.
Pertanto, poichè la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie in questione, la separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività persecutoria incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario o della separazione di fatto, pongono, come nel caso in esame, la parte offesa in posizione psicologica subordinata o comunque dipendente (Sez. 6, n. 282 del 26/01/1998).
Nel caso in esame la Corte distrettuale, con motivazione immune da vizi logici, aveva sottolineato che gli atti di offesa e di disprezzo, nonché le violenze fisiche e le minacce nei confronti della vittima erano cominciati a partire dal 2009.
L’elemento soggettivo del reato
Quanto al dolo, la giurisprudenza è costante nel ritenere che “per la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 572 c.p. non è necessario che l’agente abbia perseguito particolari finalità nè il proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisiche o morali senza plausibile motivo, essendo invece sufficiente il dolo generico cioè la coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo ed abituale (Sez. 6, n. 1067 del 3 luglio 1990); non è, quindi, richiesto un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto; essendo l’elemento unificatore dei singoli episodi costituito da un dolo unitario, e pressoché programmatico, che abbraccia e fonde le diverse azioni; esso consiste nell’inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatrice che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte (Sez. 6, n. 468 del 06/11/1991); esso è, perciò costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento dall’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze”.
La decisione
Di tali principi la Corte d’appello aveva fatto corretta applicazione sottolineando la sussistenza di una precisa determinazione del ricorrente a sottoporre la moglie a vessazioni morali – e talvolta fisiche – di accertata offensività.
A tal proposito, la circostanza che l’imputato, all’epoca dei fatti, non versasse in adeguate condizioni economiche è stata correttamente ritenuta del tutto irrilevante sotto il profilo del dolo del reato contestato.
Avv. Sabrina Caporale
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