La Corte di Cassazione ha confermato la condanna a cinque anni di reclusione inflitta a un uomo per il reato di maltrattamenti in famiglia, rigettando il ricorso fondato sull’asserita cessazione della convivenza. I giudici hanno ribadito che il vincolo familiare non si dissolve con la separazione di fatto, e che le condotte vessatorie iniziate durante la convivenza restano penalmente rilevanti anche se proseguite successivamente. Particolarmente grave, secondo la Corte, la strumentalizzazione del figlio minore come mezzo di pressione psicologica nei confronti della ex moglie (Corte di Cassazione, VI penale, sentenza 5 maggio 2025, n. 16652).
I maltrattamenti in famiglia
Il Tribunale di Siena (sent. 27/6/2023) ha dichiarato l’imputato responsabile di condotte vessatorie – maltrattamenti in famiglia – e lo ha condannato alla pena di 5 anni di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile, liquidati in via equitativa in 10.000 euro.
Successivamente, la Corte di appello di Firenze ha ridotto la pena inflitta, confermando nel resto la sentenza di primo grado. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato.
La sua tesi difensiva è incentrata sul fatto che le condotte contestate risalirebbero a dopo la cessazione della convivenza, laddove, invece, la norma incriminatrice richiederebbe la convivenza in atto. Censura, inoltre, la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
Il giudizio di Cassazione
La Cassazione ritiene il ricorso inammissibile. Viene ricordato che secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza.
Come già chiarito da precedenti pronunzie, anche recenti, la Cassazione ha dato atto che la separazione è una “condizione” che non elide lo “status” acquisito con il matrimonio, dispensando dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lasciando integri quelli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, che discendono dall’art. 143, comma 2, cc.
Questo significa che l’argomentazione dell’imputato, con cui deduce l’insussistenza del reato di maltrattamenti, in quanto la maggior parte delle condotte sono state poste in essere dopo il gennaio 2022, allorché era cessata la coabitazione tra l’imputato e la persona offesa, che avevano contratto matrimonio fin dal 2007, è infondato.
La strumentalizzazione del figlio da parte del padre
La Corte di appello, venendo alla “strumentalizzazione” del figlio lamentata dalla ex moglie, con motivazione adeguata e corretta, ha rilevato che l’imputato ha continuato a tenere il figlio minore con sé, in violazione del provvedimento del Tribunale civile, strumentalizzandolo sia per mantenere un contatto con la moglie sia per continuare a minacciarla, anche grazie al telefono del figlio, allo scopo di fare pressione psicologica su di lei.
Egualmente infondata è la censura relativa alla mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche, in quanto la Corte di appello, con apprezzamento logico e corretto, ha ritenuto ostative le reiterate trasgressioni delle misure cautelari e il generale atteggiamento di disprezzo nei confronti dei provvedimenti assunti dal giudice civile.
La Cassazione conclude con la declaratoria di inammissibilità e conseguente obbligo al pagamento delle spese processuali e della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.
Avv. Emanuela Foligno