La mancata diagnosi di melanoma ha negato alla paziente un “ventaglio” di opzioni con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima

Aveva convenuto in giudizio un dermatologo chiedendo di accertarne la responsabilità per i danni subiti e condannarlo al conseguente risarcimento per mancata diagnosi di melanoma. A fondamento della domanda, l’attrice aveva esposto che in data 20 ottobre 1988 si era recata presso lo studio del professionista, al fine di chiarire la natura di un’affezione cutanea presente sull’alluce del piede sinistro; il medico le aveva diagnosticato un’onicomicosi con relativa terapia, ma, nonostante tali cure, si era presentato un peggioramento del quadro clinico; solo nell’ottobre del 1989 il dottore le aveva prescritto esami più approfonditi, dai quali era emerso un melanoma maligno con conseguenti interventi chirurgici e profilassi oncologica. L’attrice aveva dedotto la colpa del professionista per non aver accertato la natura dell’affezione cutanea tempestivamente nonostante il quadro clinico in continuo peggioramento. ll dottore, a sua volta, aveva chiesto il rigetto delle domande attoree, sostenendo che la terapia micotica era stata utile a guarire la micosi presente allo scopo di poter valutare adeguatamente la malattia sottostante e che nonostante svariati inviti rivolti alla paziente di effettuare ulteriori accertamenti, ella aveva rifiutato più volte, procrastinandoli.

L’attrice era morta in corso di causa e i suoi eredi, si erano costituiti in giudizio. Istruita la causa mediante prove orali, documentali e c.t.u., il Tribunale aveva respinto la domanda attorea in quanto, in base alla relazione peritale, non era emersa una precisa negligenza del medico né un nesso causale tra il melanoma e la morte della paziente. Il giudice aveva escluso la responsabilità del convenuto sulla base della particolare difficoltà diagnostica dovuta alla micosi e alla non sempre puntuale adesione dell’attrice a sottoporsi a esami ulteriori. La Corte di Appello aveva confermato la decisione di prime cure ritenendo mancante la prova, gravante sull’attrice, che il danno sofferto dalla paziente e la sua successiva morte fossero collegati all’imperizia e negligenza del medico convenuto in giudizio.

La Corte di Cassazione, poi, aveva accolto il ricorso di uno degli eredi – il quale lamentava che la Corte d’appello avesse errato nel ritenere non allegato e non provato il danno patito dalla vittima – rinviando la causa alla Corte territoriale la quale era tenuta: a) a valutare se il danno alla salute patito dalla vittima fosse stato allegato nella citazione, tenendo conto del fatto che si trattava di un danno in evoluzione e che l’attore ha l’onere di descrivere il danno, ma non quantificarlo; b) ove ritenesse, a procedere al relativo accertamento di esso tenendo conto del principio secondo cui la consulenza tecnica d’ufficio, che di norma non è un mezzo di prova, lo diventa allorché la prova del danno — come quello alla salute — sia impossibile od estremamente difficile a fornirsi con i mezzi ordinari.”

Il Collegio distrettuale aveva tuttavia nuovamente respinto le domande risarcitorie iure ereditatis della parte attrice. La CTU, disposta dai giudici di merito, aveva infatti evidenziato che un intervento anticipato di amputazione dell’alluce sinistro avrebbe determinato una maggiore possibilità di sopravvivenza della signora quantificabile nella misura del 30-40% a 10 anni se la diagnosi fosse stata formulata nell’ottobre 1988; che le metastasi polmonari, causa finale del decesso della paziente, secondo un giudizio probabilistico, erano collegate al melanoma del piede; che quest’ultimo era cresciuto di circa 0,40 mm al mese. Alla luce di tali affermazioni, i giudici di merito avevano ritenuto non provato il nesso causale tra la condotta colposa del medico e il decesso della donna, ponendo a base del loro ragionamento due assunti principali enunciati dalle relazioni dei consulenti tecnici, sia di parte che d’ufficio: che il tumore nel 1989 aveva uno spessore di 10 mm; che la crescita del melanoma era stata di 0,40 mm al mese. Pertanto, secondo un giudizio di verosimiglianza, nel 1988, data della prima visita della donna presso il dermatologo, il tumore aveva già raggiunto uno spessore di 4,8 mm entrando nel livello superiore a 4 mm Breslow, il medesimo in cui si trovava l’anno dopo. Pertanto, non si poteva affermare con ragionevole sicurezza che una diagnosi corretta all’epoca della prima visita avrebbe evitato l’evoluzione delle metastasi, in quanto a quel tempo il tumore era già in un uno stadio tale da poterle generare.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, l’erede della defunta lamentava, tra gli altri motivi, “violazione e falsa applicazione degli art. 112 e 277 c.p.c. (360 n. 3) e dell’art. 2059 c.c.; mancato esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5 c.p.c.)”. I giudici di merito si sarebbero pronunciati solo su una parte delle domande avanzate dal ricorrente, quella inerente all’accertamento del nesso causale tra condotta medica omissiva ed evoluzione nefasta, od accelerazione della medesima, mentre le domande proposte comprendevano uno spettro d’esame più ampio includendo ‘i gravi danni patrimoniali e non patrimoniali anche connessi al decesso’ e non solo quelli conseguenti a detto evento finale. La Corte territoriale – a suo avviso – aveva omesso di considerare che da una diagnosi esatta di una malattia ad esito ineluttabilmente infausto consegue che il paziente, oltre ad essere messo nelle condizioni di scegliere, se possibilità di scelta vi sia, che fare nell’ambito di quello che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all’esito infausto e di programmare il suo essere persona in vista di quell’esito. Il ricorrente, inoltre, lamentava la violazione a contrario dell’art. 360-bis c.p.c. per essere stata disattesa una costante giurisprudenza di legittimità, in quanto i giudici di merito non avrebbero tenuto conto che il ritardo nella diagnosi avrebbe determinato di per sé una lesione del diritto di autodeterminarsi.

Gli Ermellini, con la sentenza n. 34813/2021, hanno ritenuto le doglianze fondate.

Il ricorrente, infatti, lamentava la lesione del diritto all’autodeterminazione della donna, la quale, se consapevole tempestivamente della malattia infausta, avrebbe avuto la facoltà di determinarsi liberamente nella scelta dei percorsi da intraprendere nell’ultima fase della sua vita. Pertanto, ciò che rilevava non era la lesione del bene salute o della perdita di chance, quanto la lesione di un bene autonomo di per sé risarcibile in quanto tutelato dalla Costituzione.

Era stata la stessa Corte d’appello ad affermare che all’epoca della prima visita della donna presso il dermatologo la stadiazione del melanoma aveva uno spessore per cui era già iniziato quel percorso irreversibile che le avrebbe cagionato la morte. Sulla base di tale affermazione i giudici di merito avrebbero dovuto tener conto, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale, che, nonostante l’inutilità della diagnosi precoce ai fini dell’evitabilità dell’evento infausto, questa avrebbe consentito alla paziente di autodeterminare il suo tempo rimanente con coscienza e consapevolezza. Nel caso in oggetto la condotta del medico non aveva cagionato la morte della paziente che, secondo la Corte d’appello, si sarebbe comunque verificata, ma aveva comportato un peggioramento del periodo rimanente.

Pertanto, il mancato accertamento del nesso causale tra la condotta del sanitario e il decesso della paziente poteva fondare la non risarcibilità del danno non patrimoniale correlato al decesso della stessa ma non anche la non risarcibilità di un diverso bene giuridico quale per l’appunto la lesione al diritto di autodeterminarsi.

Da lì la decisione di annullare la sentenza impugnata con nuovo rinvio alla Corte di appello che dovrà attenersi, nel giudizio, al seguente principio: “in caso di colpevoli ritardi nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l’area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, ma include il danno da perdita di un “ventaglio” di opzioni, con le quali affrontare la prospettiva della fine ormai prossima, ovvero “non solo l’eventuale scelta di procedere (in tempi più celeri possibili) all’attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d’indole meramente palliativa, ma anche la stessa decisione di vivere le ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all’ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine”, giacché, tutte queste scelte “appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali”.

La redazione giuridica

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