Mobbing dai colleghi, il datore di lavoro è responsabile?

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prova dell'eziologia

Confermata la condanna di un’azienda a risarcire una dipendente per il danno da invalidità temporanea conseguente al mobbing posto in essere da altri lavoratori

L’imprenditore ha l’obbligo di adottare, nell’esercizio dell’impresa, tutte le misure che, avuto anche riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori. Lo ha ribadito la Cassazione nella sentenza n. 27913/2020 pronunciandosi sul ricorso presentato da un azienda contro la decisione con cui i Giudici del merito avevano dichiarato l’illegittimità del licenziamento di una lavoratrice, disponendone la reintegrazione nel luogo di lavoro, e condannando la società datrice al pagamento, in favore della donna, dell’indennità risarcitoria dal licenziamento sino alla effettiva reintegra, oltre al versamento dei contributi maturati e maturandi. La Corte territoriale, poi, aveva riconosciuto alla lavoratrice una somma di 5.422,50 euro, a titolo di risarcimento del danno da invalidità temporanea conseguente al mobbing posto in essere nei suoi confronti da alcuni colleghi.

Il Giudice di secondo grado, in particolare, aveva osservato che, nella fattispecie, il rappresentante legale della società datrice fosse stato messo al corrente dei reiterati episodi di mobbing ma non avesse voluto indagare a fondo la questione, né attuare provvedimenti disciplinari idonei a tutelare la situazione problematica prospettatagli dalla dipendente. Inoltre, sebbene il datore di lavoro non si fosse reso protagonista diretto delle condotte vessatorie subite dalla donna, tuttavia lo stesso non poteva andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall’art.2087 c.c..

Nel rivolgersi alla Suprema Corte la parte ricorrente, tra gli altri motivi, contestava alla Corte d’Appello di aver omesso di considerare la mancata comunicazione al datore di lavoro dei comportamenti assunti come mobizzanti.

I Giudici Ermellini, tuttavia, nel respingere il ricorso, hanno chiarito che “la responsabilità datoriale per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione”.

Nel caso in esame la Corte di merito aveva correttamente  esaminato e valutato il fatto che il datore di lavoro fosse o meno al corrente “dei comportamenti assunti come mobizzanti” ed al riguardo aveva osservato che sebbene il datore di lavoro non si fosse reso protagonista diretto delle condotte vessatorie subite dalla dipendente, tuttavia lo stesso non poteva andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall’art. 2087 c.c..

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