Le molestie sessuali sul lavoro perpetrate dal principale possono considerarsi provate anche dalle deposizioni delle altre dipendenti che le hanno subite

Più deposizioni di dipendenti che hanno subito molestie sessuali sul lavoro costituiscono una presunzione di colpa del datore di lavoro.

Lo stabilisce la Corte di Cassazione con la sentenza n. 23286 del 15 novembre 2016 pronunciandosi su un caso di licenziamento illegittimo.

Un lavoratrice dopo essersi rifiutata di subire le molestie sessuali del datore di lavoro era stata da questi licenziata. La lavoratrice ha impugnato il licenziamento in primo e secondo grado il Tribunale le ha dato ragione, con conseguente condanna del datore di lavoro a reintegrarla in azienda.

Secondo i giudici dei primi due gradi di giudizio, infatti, era accertato che il licenziamento costituisse la “ritorsione” del principale a seguito del rifiuto della donna di sottostare alle molestie sessuali che lui le ha rivolto.

Il datore di lavoro, ritenendo la sentenza ingiusta, è ricorso in Cassazione, sostenendo che la Corte d’appello non avesse dato corretta applicazione all’art. 18 della legge n. 300/70, ritenendo erroneamente provata la sussistenza delle molestie sessuali.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.

Per la Cassazione, infatti, la Corte d’appello aveva correttamente desunto la sussistenza delle molestie sul lavoro “sulla base di plurime deposizioni che hanno riferito di molestie in loro danno, analoghe a quelle lamentate” dalla ricorrente.

Inoltre, la conferma delle accuse arrivava anche dal fatto che nell’azienda vi era stato un “serrato turn over tra le giovani dipendenti assunte dall’odierno ricorrente, che dopo un breve periodo di lavoro si dimettevano senza apparente ragione”.

Di conseguenza, secondo la Cassazione, si trattava di “un quadro complessivo che correttamente i giudici di merito hanno ritenuto tale da imporre quell’inversione dell’onere probatorio a carico del datore di lavoro (…), prescritta dall’art. 40 d. lgs. 198/06 in ipotesi di discriminazione di sesso”.

Precisava la Cassazione, in proposito, che doveva tenersi conto della “generale equiparazione fra discriminazioni di genere e molestie sessuali”, sancita dall’art. 26 del medesimo decreto legislativo sopra citato, con la conseguenza che, in entrambi i casi, trova applicazione il disposto del successivo art. 40, in tema di ripartizione dell’onere della prova.

Quanto all’assimilazione tra discriminazioni e molestie sessuali, peraltro, anche la Corte di Giustizia, nella sentenza n. 303/06, ha precisato che le molestie “sono una forma di discriminazione”, con la conseguenza che alle medesime “sono applicabili le stesse disposizioni in tema di onere della prova, nel senso che, ove risultino fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione, diretta o indiretta, incombe alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del divieto di discriminazione”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal datore di lavoro, confermando integralmente la sentenza di primo grado e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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