Nascita indesiderata e danni risarcibili (Cass. civ., sez. III, 31 gennaio 2023, n. 2798 – Presidente Travaglino – Relatore Pellecchia).

Nascita indesiderata da omessa diagnosi di malformazioni e relative poste risarcitorie.

Nuovamente all’attenzione della Suprema Corte la delicata tematica della nascita indesiderata da omessa diagnosi di malformazione del feto che ha provocato la domanda giudiziale per mancato esercizio del diritto all’interruzione volontaria della gravidanza, per violazione del diritto al consenso informato e all’autodeterminazione.

Nei giudizi di merito venivano espletate due C.T.U.: una riteneva che l’esame ecografico avrebbe potuto rilevare la patologia del feto, con una sensibilità diagnostica del 90%; la seconda rilevava, invece, che la patologia del feto, poteva essere accertata in misura del 50%.

I Giudici di merito, sebbene con motivazioni differenti, rigettavano le domande risarcitorie dei genitori.

La Corte di Appello, riteneva che era onere probatorio della Azienda Sanitaria provare di avere fatto il possibile per adempiere alla prestazione, anche se la percezione diagnostica era del 50% (perché mancavano le registrazioni degli esami, sia perché non era stata provata l’informativa della possibilità di rivolgersi a strutture di più elevata specializzazione, in modo che l’omessa informativa aveva ingenerato la convinzione della sufficienza delle indagini di primo livello effettuate). Inoltre non veniva provato, da parte dei genitori, una condizione per l’esercizio del diritto all’aborto: oltre al pericolo grave per la salute della donna (accertato un danno biologico del 15% in capo alla madre), non era stato provato che la medesima, se effettivamente informata, avrebbe esercitato il diritto all’interruzione della gravidanza.

Al di là della difficoltà per l’attrice di provare la volontà di interrompere la gravidanza, se correttamente informata, di cui si è già parlato in abbondanza in precedenti pronunzie di legittimità, a parere di chi scrive vi è un’altra questione importante, ovvero: se il danno in parola comprende anche la mancata corretta informazione.

Il dovere di informare il paziente, provoca due diversi tipi di danni:

1) un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente, sul quale grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento;

2) un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, sussistente se, a causa della omessa informazione, il paziente abbia subìto un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale, in tale ultimo caso di apprezzabile gravità, diverso dalla lesione del diritto alla salute.

Come ormai pacifico, il danno da lesione dell’autodeterminazione è riconosciuto autonomo rispetto al danno biologico con riferimento alla fattispecie di omessa diagnosi tempestiva di patologie con esito nefasto.

Difatti, la Suprema Corte applica i medesimi principi al caso di nascita indesiderata per omessa diagnosi di malformazione del feto. Dunque i danni risarcibili sono la perdita del diritto di interrompere la gravidanza (se ne ricorrono le condizioni) e la impossibilità di impostare scelte finalizzate a prepararsi all’evento (ad esempio, tempestivo ricorso alla psicoterapia o tempestiva preparazione/organizzazione della vita in relazione alle esigenze del nascituro).

La Corte di Appello non ha applicato questi principî, nonostante il riconoscimento di un danno biologico del 15% post partum alla madre.

Il problema, di difficile risoluzione, dell’onere probatorio incombente sui genitori in caso di nascita di feto malformato è quello di allegare tutti gli elementi seri, precisi e concordanti volti a dimostrare in concreto la lesione del diritto all’autodeterminazione.

Ebbene, la prova che a fronte di una diagnosi di malformazioni fetali avrebbe fatto seguito l’interruzione volontaria della gravidanza, necessaria all’accoglimento della pretesa risarcitoria per nascita indesiderata di un figlio malformato, è raggiungibile in via presuntiva. Questo è il ragionamento seguito dagli Ermellini, secondo cui deve procedersi, in base ai fatti di causa, a una valutazione quantitativa di probabilità (sulla scia di Cass. civ., sez. III, 25.06.2019, n. 16892).

In buona sostanza la madre deve fornire la prova controfattuale della volontà abortiva, e la può fornire attraverso presunzioni. Ciò è quanto già da tempo predica la Cassazione  (tra tutte SS.UU. 57767/2015): ad esempio il ricorso al consulto medico per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, pregresse manifestazioni di pensiero sintomatiche di una propensione all’opzione abortiva in caso di grave malformazione del feto, ecc..

Conclusivamente il danno in parola comprende anche la mancata corretta informazione e la decisione a commento, pur conformandosi alle precedenti decisioni in parola ha il pregio di avere definitivamente chiarito anche tale aspetto.

Avv. Emanuela Foligno

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