L’infortunato era stato addetto a lavori di manutenzione del tetto di un capannone, di proprietà del committente delle opere, ma altresì consigliere di amministrazione della società che aveva sede proprio nello stabile in questione. Il giorno 08/10/2012 durante il lavoro era stato vittima di un infortunio per non essere stato dotato di sistemi di protezione, nessuna misura di sicurezza, né di adeguata formazione o informazione in relazione agli specifici rischi.
Nello specifico era caduto dal tetto in eternit al suolo, da un’altezza di circa otto metri, riportando gravi lesioni. Per tali ragioni adiva il Tribunale di Arezzo per ottenere la condanna in solido del datore di lavoro e del committente per tutti i danni nella misura eccedente l’indennizzo già riconosciuto dall’INAIL.
Nel processo interveniva l’INAIL che proponeva azione di regresso e di rivalsa nei confronti dei due convenuti per recuperare le prestazioni erogate all’infortunato. Deduceva di aver costituito una rendita per invalidità permanente nella misura dapprima del 68%, poi del 73% e di aver indennizzato un periodo di inabilità temporanea assoluta di 325 giorni.
Il Tribunale accoglieva la domanda nei soli confronti del datore di lavoro che veniva condannato al pagamento della somma di oltre trecentomila euro in favore del lavoratore, e di euro 290.798,95 in favore dell’INAIL. La responsabilità del committente veniva esclusa perché, non essendo imprenditore, avrebbe potuto rispondere solo se si fosse ingerito nell’attività dell’appaltatore, circostanza rimasta indimostrata in giudizio, ed anche perché a suo favore era intervenuta sentenza di assoluzione in sede penale, divenuta irrevocabile.
La Corte di Appello, invece, condanna il committente in solido con il datore di lavoro a pagare al lavoratore la somma di euro 308.107,82 e all’INAIL la somma di euro 206.176,38.
Le conclusioni dei giudici di Appello
La Corte ha affermato, in sintesi:
a) l’eccezione del committente, secondo cui il giudicato penale di assoluzione per non aver commesso il fatto sarebbe opponibile sia al lavoratore, sia a INAIL, pur non avendo costoro partecipato al processo penale, è infondata.
b) per il lavoratore la vincolatività di quel giudicato è esclusa dagli artt. 652, co. 1, e 75, co. 2, c.p.p., atteso che egli non si è costituito parte civile nel processo penale ed anzi ha proposto separata azione civile.
c) questo sistema è stato introdotto dal nuovo c.p.p., in cui il legislatore ha abbandonato il tradizionale principio dell’unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale, in favore dell’autonomia dei giudizi (Cass. sez. un. n. 1445/1998; Cass. sez. un. n. 1768/2011).
d) non può applicarsi il co. 3 dell’art. 75 c.p.c. (sospensione del processo civile iniziato dopo la costituzione civile in sede penale o dopo la sentenza penale di primo grado), atteso che nel caso in esame il giudizio di lavoro è iniziato con ricorso depositato il 10/12/2014 e la sentenza penale di primo grado è stata pronunziata in data 17/03/2016 (e non vi è stata costituzione di parte civile).
e) nei confronti di entrambi gli appellanti, allora, la responsabilità del committente può essere autonomamente valutata, senza alcun vincolo derivante da quel giudicato penale.
Un’attività rischiosa e nessuna misura di sicurezza
f) da tempo la giurisprudenza penale ritiene sussistente una posizione di garanzia anche in capo al committente, fermo restando che la sua responsabilità non può essere affermata in via automatica, perché occorre pur sempre verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative dell’impresa appaltatrice prescelta, avuto riguardo alla specificità dei lavori da seguire, ai criteri utilizzati dal committente per la scelta dell’appaltatore, alla sua ingerenza nell’esecuzione di quei lavori, nonché all’agevole ed immediata percepibilità, da parte del committente, di situazioni di pericolo (Cass. n. 3563/2012).
g) nel caso in esame i lavori commissionati imponevano la realizzazione di un’attività rischiosa e l’appaltatore non aveva apprestato nessuna misura di sicurezza, neppure la più elementare, così determinando una condizione di rischio evidente per qualsiasi soggetto ordinariamente diligente, a maggior ragione per una persona, come il committente che svolgeva un’attività di impresa.
h) non rileva che il committente non fosse presente sul luogo al momento del fatto, poiché la sua posizione di garanzia gli imponeva di vigilare, di persona o a mezzo delegato, sulla predisposizione, da parte dell’appaltatore, almeno delle condizioni minime di sicurezza a fronte del rischio evidente di cadute dall’alto, non dovendo consentire, in caso diverso, l’accesso al bene di sua proprietà dove tali opere dovevano essere eseguite.
i) l’omissione di questa doverosa vigilanza ha determinato la responsabilità del committente.
Inutile il ricorso della società committente dei lavori alla Corte di Cassazione che conferma in toto quanto deciso dai Giudici di appello (Cassazione Civile, sez. lav., 17/05/2024, n.13760).
Avv. Emanuela Foligno