Non corretto trattamento terapeutico di evento ischemico

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Non corretto trattamento terapeutico in evento di ischemia

Non corretto e ritardato trattamento terapeutico in evento di ischemia: riconosciuta al paziente la personalizzazione del danno biologico (Cassazione Civile, sez. III, 12/04/2022, n.11765).

Non corretto trattamento terapeutico in occasione dell’ischemia è quanto viene lamentato dal paziente che deduce di avere conseguito una invalidità permanente e un ritardo del soccorso da parte del servizio 118.

La Corte d’Appello di Trieste, in accoglimento dell’appello proposto dal paziente, ed in parziale riforma della decisione del Tribunale di Gorizia, ha condannato l’Azienda Sanitaria al risarcimento della somma di complessivi Euro 150.657,30, a titolo di danno non patrimoniale per il non corretto trattamento terapeutico in occasione di un evento ischemico che provocava una invalidità permanente.

La Corte territoriale confermava il non corretto trattamento terapeutico da parte dell’Azienda Sanitaria e riconosceva anche la personalizzazione del danno biologico.

Il danneggiato propone ricorso per Cassazione lamentando errata applicazione dei principi sull’onere probatorio; errata applicazione delle norme sul nesso causale e prova presuntiva; omessa ammissione delle istanze istruttorie e il mancato riconoscimento del danno da perdita di chance.

Secondo il ricorrente, la responsabilità per il ritardo con cui è intervenuto il servizio di soccorso 118 e il mancato invio ad una delle strutture regionali dotate di “stroke unit” è risultata acclarata, come pacifica è la circostanza che la cura trombolitica, se intervenuta entro le tre ore dall’evento, avrebbe avuto esiti di completa guarigione e se apprestata entro le ore 4/5 dall’evento avrebbe avuto (se non di completa guarigione, come emerso da studi recenti), comunque notevoli effetti migliorativi, invece l’Azienda, agendo con colpevole ritardo, attuava un non corretto trattamento terapeutico.

Con l’ultimo motivo il paziente insiste nel ribadire l’errore commesso dai Giudici di merito nel valutare le modalità e tempistiche di intervento, limitando il risarcimento alla sola invalidità permanente residuale del 10%, anziché riconoscergliela nella percentuale del 60%.

I primi tre motivi sono inammissibili e infondati nella parte in cui lamentano profili di violazione di legge, sia con riferimento alla prova presuntiva, sia con riferimento al principio dell’onere della prova in tema di nesso causale, sia in relazione al potere di valutazione della prova secondo l’art. 116 c.p.c..

Secondo il ricorrente, la violazione di legge sarebbe consistita nell’avere assunto come fatto noto da cui risalire a quello ignoto (ovvero l’orario dell’insorgenza dell’evento ischemico) un unico elemento probatorio (cioè le risultanze del verbale di trasferimento del paziente dalla sua abitazione al Pronto Soccorso), anziché da una pluralità di elementi come richiesto dall’art. 2729 c.c., comma 1.

Ebbene, riguardo il tema delle presunzioni semplici, la Corte ribadisce che gli elementi assunti a fonte di prova non debbono essere necessariamente più d’uno, ben potendo il Giudice fondare il proprio convincimento su uno solo di essi, purché grave e preciso. In tale ottica, il requisito della concordanza deve essere applicato solo in previsione di un eventuale, ma non necessario, concorso di più elementi presuntivi.

La Corte di Appello, ha osservato: “non essendo emerso in termini di certezza l’orario dell’insorgenza della grave patologia, nella forbice  temporale proposta dal CTU, ore 7/9,  dovrà assumersi l’orario più mattiniero in base a convergenza di elementi maggiormente attendibili rispetto a quelli – meramente congetturali – a conforto dell’opposto assunto. Invero l’orario delle ore 7 indicato nel verbale di trasferimento (e quindi nell’assoluta immediatezza) è ragionevolmente desunto dalle dichiarazioni dello stesso paziente, “obiettivamene vigile, orientato collaborante” e di sé stesso buon testimone, con riferimento ad un esordio patologico coerente al successivo sviluppo, attribuendosi pertanto alla caduta la valenza di epifenomeno dell’ictus. Il tutto dovendosi sottolineare come l’orario delle nove, riguardi tutt’altra (e forzatamente successiva) circostanza (soccorso dei vicini)”.

Tale deduzione sta a significare che il Giudice d’Appello ha attribuito valenza preponderante a quanto risultante dal verbale di trasferimento, la cui formazione deriva dalle stesse indicazioni del paziente soccorso, vigile, orientato e collaborante, e distinguendo logicamente l’esordio patologico dell’ictus ischemico, dal successivo sviluppo, conclusosi con la caduta quale epifenomeno dello stesso evento.

In tale percorso motivazionale il Giudice di Appello non è incorso in alcun errore.

Riguardo, infine, il mancato riconoscimento della perdita di chance censurato dal paziente, la Suprema Corte, nel ritenere la doglianza inammissibile, rileva come il Giudice d’Appello abbia riconosciuto, liquidato e anche personalizzato, il danno concretamente verificatosi, derivato dal tardivo e non corretto trattamento terapeutico che, come rilevato dalla stessa Corte e anche dal primo Giudice, se fosse stato tempestivo, avrebbe, quantomeno, ridotto le conseguenze lesive.

Ebbene, l’accertamento compiuto in Appello esclude la sussistenza del danno da perdita di chances : non vi è spazio per ulteriori incrementi, anche in considerazione del fatto che al danneggiato è stato liquidato interamente il danno patito dal colposo ritardo e non corretto trattamento terapeutico.

Inoltre sul punto, sia il Giudice d’Appello, che il Tribunale risultano del tutto allineati.

Il ricorso viene integralmente rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Avv. Emanuela Foligno

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