Omessa diagnosi di ischemia e responsabilità dei Medici (Cassazione Civile, sez. III, dep. 21/10/2022, n.31137).
Mancato tempestivo ricovero per omessa diagnosi di ischemia provoca il decesso del paziente.
La Corte di Appello riconosceva responsabili della morte del paziente la Azienda Sanitaria e il Sanitario. Il Paziente accusava un malore e veniva trasportato al pronto soccorso dell’Ospedale e da qui trasferito con la diagnosi iniziale di epigastralgia – colica addominale ad altra Struttura ove decedeva con la diagnosi di ischemia infero-laterale estesa.
I congiunti sporgevano querela nei confronti dei Medici che avevano assistito il paziente nei suoi ultimi giorni di vita. Il GIP dichiarava non doversi procedere nei confronti dei Medici del pronto soccorso, mentre con separato decreto disponeva il rinvio a giudizio dei 2 Medici del secondo Ospedale; il procedimento penale era definito con successiva dichiarazione di non doversi procedere nei loro confronti per intervenuta prescrizione.
Successivamente venivano citati a giudizio la ASL e i due Medici della seconda Struttura per vederne accertata la loro responsabilità, in particolare per la omessa diagnosi di ischemia che avrebbe potuto consentire un tempestivo ricovero in una unità intensiva coronarica.
Il Tribunale rigettava la domanda. La Corte di Appello di Bari, invece, riformava l’esito del giudizio di primo grado e accoglieva l’appello nei confronti della Asl e dei Medici del reparto di medicina generale dell’Ospedale e consulenti cardiologici. Condannava in solido i soccombenti a pagare a titolo risarcitorio per perdita del rapporto parentale la somma di Euro 245.990,00 in favore di ciascuno degli appellanti, ovvero i due figli e la moglie del paziente.
La Corte d’Appello separava la posizione dei Medici di guardia in servizio presso il pronto soccorso del primo presidio ospedaliero, che riteneva esenti da colpa, dalla posizione del Primario del reparto di medicina generale e dei due Cardiologi del secondo Ospedale ove era deceduto il paziente.
I Giudici di appello affermavano che dalle risultanze probatorie emergeva la prova del nesso causale, applicando la regola probatoria del più probabile che non, ovvero che il Primario di Medicina e i suoi consulenti Cardiologi avrebbero potuto, e dovuto, riscontrare la grave ischemia istero-laterale in atto e intervenire tempestivamente attivandosi per il trasferimento del paziente nel reparto di unità coronarica più vicino, il che avrebbe consentito un monitoraggio approfondito e costante e la sottoposizione precoce del paziente a rivascolarizzazione miocardica, al fine di assicurare terapie adeguate alla sua condizione, che solo un reparto di unità coronarica poteva fornire, a prescindere dalla conseguimento della certezza che tali trattamenti avrebbero scongiurato l’esito mortale, proprio perché il giudizio di responsabilità civile non si fonda su un’asserzione di certezza ma su una valutazione in termini probabilistici.
In altri termini, trattenere il paziente presso un reparto di medicina generale aveva costituito al tempo stesso un comportamento imperito, imprudente e negligente che concorreva, secondo il criterio di probabilità relativa, al tragico epilogo.
Per la quantificazione del danno, il Giudice di merito applicava le tabelle del Tribunale di Milano e liquidava a ciascuno dei congiunti, senza altro aggiungere, e senza distinguere le rispettive posizioni, la somma di 245.990,00 Euro.
Con il primo motivo di ricorso in Cassazione la Asl sostiene l’inammissibilità dell’appello perché gli appellanti avrebbero formulato per la prima volta la diversa domanda di risarcimento del danno da perdita di chance. Inoltre, per quanto qui di interesse, sostiene la ASL con il terzo motivo, che la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare il passo cruciale della CTU laddove il consulente indicava il comportamento dei tre medici come fonte di un loro ruolo concausale non nella morte del paziente, ma soltanto in una perdita di chance di guarigione. A ciò I’ASL aggiunge che la Corte d’appello ha riconosciuto in effetti l’esistenza di una responsabilità per perdita di chance e non di una responsabilità per morte del paziente e quindi avrebbe dovuto limitare la quantificazione del danno alla perdita di chance, che avrebbe portato a riconoscere importi inferiori.
Le prime due censure non sono fondate.
Nell’atto di appello la specificità del motivo di gravame si evidenzia nella prospettata, errata valutazione da parte del Giudice di primo grado delle risultanze probatorie in atto sia con riferimento alle conclusioni del CTU sia con riferimento alla dedotta antinomia tra l’accertata imprudenza, negligenza e imperizia del comportamento dei tre Medici di reparto e il rigetto della domanda risarcitoria pur in presenza di un esito mortale per il paziente.
Il terzo motivo, invece, è fondato.
Nella sentenza impugnata c’è un passaggio espresso in cui si accerta l’esistenza del nesso causale tra il comportamento omissivo dei medici, consistente nel non aver trasferito il paziente, pur consapevoli della gravità delle sue condizioni, presso un’adeguata unità coronarica e nell’averlo trattenuto per quattro giorni presso il reparto di medicina generale dove comunque, a prescindere dalle concrete probabilità di superare la crisi, non avrebbe potuto ricevere cure adeguate per la ischemia-istero-laterale, e la morte del paziente.
La Corte d’appello ritiene tale comportamento non solo imperito e imprudente ma anche negligente, e lo valuta nel suo complesso come dotato di rilevanza causale sulla morte del paziente, ritenendo con ragionamento probabilistico che, se sottoposto agli interventi adeguati alla patologia di ischemia istero-laterale, in una struttura specializzata in grado di assisterlo, avrebbe potuto avere delle possibilità di superare la crisi.
Tuttavia, le considerazioni della Corte d’appello sul comportamento inadeguato, imprudente e imperito dei medici non sono corredate da un rigoroso ragionamento controfattuale, volto all’accertamento del nesso di causalità tra il comportamento da questi tenuto e il decesso del paziente, da porre alla base dell’affermazione, seppur in termini probabilistici e non di assoluta certezza, che ove spostato in un reparto in grado di fornire le cure adeguate il paziente si sarebbe salvato.
La sentenza afferma che ” la preclusione di tali interventi sanitari, operabili esclusivamente in un reparto UTIC, ascrivibile all’omissione contestata, ha indubbiamente concorso, alla stregua del criterio di probabilità relativa (…) al tragico epilogo determinatosi” per poi aggiungere ” le probabilità di sopravvivenza del paziente in un reparto specializzato sarebbero state sicuramente superiori a quelle che allo stesso venivano concesse in un reparto inidoneo in quanto sprovvisto della necessaria strumentazione, quale quello di medicina legale”. Detto ciò conclude però, incoerentemente, con l’accoglimento della domanda risarcitoria ritenendo provata l’esistenza del nesso causale tra il comportamento dei medici e il danno consistente nella morte del paziente.
I riferimenti contenuti nella sentenza impugnata fanno intendere, conformemente alle risultanze della C.T.U., che sia stata negata al paziente la possibilità di ottenere un risultato migliorativo, che avrebbe avuto qualche chance di conseguire. Difatti, non è il risultato perduto, ma la perdita della possibilità di realizzarlo l’oggetto della pretesa risarcitoria nella perdita di chance.
Però la Corte d’Appello confonde i due piani, quello della chance, ovvero della perdita della possibilità del conseguimento di un risultato utile soltanto sperato, e quello dell’accertamento del nesso causale pieno in relazione alla perdita del bene vita, ovvero dell’accertamento, come più probabile che non, che il comportamento corretto e tempestivo dei sanitari, ovvero l’immediato trasferimento del paziente nell’unità specializzata, avrebbe potuto evitare il danno e far conseguire il risultato sperato e predica, a quella che descrive in fatto come mera perdita della possibilità di conseguire un miglior risultato, le conseguenze risarcitorie proprie dell’accertamento diretto del nesso di causa tra il comportamento omissivo dei medici e la morte del paziente con l’integrale risarcimento, a carico dei medici e della ASL, del danno da perdita del rapporto parentale subito dalla moglie e dai figli.
In conclusione, la sentenza viene cassata in relazione all’accoglimento del terzo motivo.
Avv. Emanuela Foligno
Sei vittima di errore medico o infezione ospedaliera? Hai subito un grave danno fisico o la perdita di un familiare? Clicca qui
Leggi anche: