Omesso versamento di ritenute: condanna confermata, ma pena ridotta

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omesso versamento ritenute

Ha diritto all’attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore sociale l’imputato che, in relazione al reato di omesso versamento di ritenute, provi di aver operato in un contesto “difficilissimo”, rinunciando ai propri compensi e orientando il proprio comportamento a garantire diritti costituzionali, quali la tutela del lavoro dei propri dipendenti

La Corte d’appello di Trieste aveva confermato la condanna, pronunciata in primo grado, a carico di un imprenditore, legale rappresentante di una società, in ordine al reato di cui all’art. 10 bis del d.lgs. n. 74/2000 per omesso versamento di ritenute certificate negli anni di imposta 2011 e 2012.

Contro tale sentenza la difesa ha proposto ricorso per cassazione, lamentando l’omessa considerazione delle prove dichiarative e documentali allegate nell’atto di appello, a sostegno dell’assenza di dolo. In particolare, la corte d’appello avrebbe omesso di considerare il fatto che la società aveva predisposto un piano di risanamento che ragionevolmente le avrebbe consentito di adempiere l’obbligazione tributaria; che la società di famiglia dell’imputato aveva messo a disposizione della società debitrice tutto il proprio patrimonio tanto da essere posta in liquidazione; e che lo stesso imputato aveva rinunciato al proprio compenso quale amministratore e aveva rilasciato garanzie personali alle banche per ottenere nuovo credito.

Il giudizio di legittimità

Ma la Corte di Cassazione (sentenza n. 10084/2020), investita della vicenda, ha rigettato il ricorso, rilevando che la crisi di impresa quand’anche non imputabile all’imprenditore, non esclude il dolo del reato tributario, soprattutto quando, come nella specie accertato, la stessa si trascini per alcuni anni senza che le iniziative adottate per il risanamento sortiscano effetto. Nel caso in esame, l’imputato aveva per ben tre anni sfruttato l’illecito profitto del reato tributario per gestire la crisi di impresa di una società già insolvente, senza interrompere prima l’attività, inoltre, l’utilizzo delle risorse patrimoniali della famiglia e la rinuncia ai compensi ad esso spettanti quale amministratore erano stati marginali rispetto alle necessità finanziarie dell’impresa e, comunque, quelle risorse non erano state utilizzate, neppure parzialmente, per pagare i debiti fiscali.

La sentenza, rispondendo logicamente alle censure dedotte dalla difesa, aveva dunque fatto corretta applicazione della consolidata giurisprudenza di legittimità in tema di reati di omesso versamento di ritenute certificate ed iva, secondo cui l’elemento soggettivo richiesto per l’integrazione del delitto è il dolo generico, configurabile anche nella forma del dolo eventuale, integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, a nulla rilevando i motivi della scelta dell’agente di non versare il tributo (Sezione Terza, n. 8352/2014).

Al riguardo, si è detto anche che “l’inadempimento della obbligazione tributaria può escludere la punibilità ad essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico, ciò che la sentenza impugnata aveva escluso in maniera convincente, anche in relazione alla pluriennale protrazione dell’inadempimento”.

Il Supremo Collegio ha invece, accolto l’ultimo motivo di ricorso, inerente la richiesta di applicazione della circostanza attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore sociale °(vale a dire, in un contesto “difficilissimo”, rinunciando ai propri compensi e orientando il proprio comportamento a garantire diritti costituzionali, in particolare quello al lavoro).

Ebbene, la corte d’appello, sul punto, aveva omesso di analizzare le allegazioni addotte dalla difesa per verificare se le stesse integrassero o meno la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 1 c.p., ma si era limitata a sostenere che il trattamento sanzionatorio fosse congruo e che il primo giudice avesse concesso le circostanze attenuanti generiche tenendo già conto di “tutte le motivazioni addotte dalla difesa” e “della particolarità della vicenda e del comportamento dell’imputato”.

La decisione

Ma per i giudici della Suprema Corte, la sentenza impugnata poteva dirsi conforme a diritto soltanto qualora gli elementi addotti dalla difesa non fossero stati sufficienti ad integrare la circostanza dell’aver agito per motivi di particolare valore sociale. Qualora, invece, lo fossero stati, avrebbe dovuto necessariamente riconoscersi la sussistenza della circostanza attenuate di cui all’art. 62, n. 1) c.p., indipendentemente dal fatto che gli stessi elementi fossero stati considerati anche nel più ampi giudizio relativo alla ritenuta sussistenza delle circostanze attenuanti generiche”.

Tale accertamento necessitava di una valutazione di merito che nella specie era mancata e rispetto alla quale la sentenza impugnata non recava motivazione.

La redazione giuridica

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