Padre violento nei confronti della figlia. Può essere ritenuta (penalmente) responsabile la madre che, in qualità di esercente la potestà genitoriale sulla figlia e consapevole dei maltrattamenti e continui abusi sessuali posti in essere dal marito nei confronti di quest’ultima, non impedisce l’evento?

La Corte di Appello di Milano, con propria sentenza, aveva condannato l’imputata per il reato di cui agli artt. 81, 40, secondo comma, 609 bis, 609 ter, n. 5, cod. pen., perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, quale genitore della minore, aveva omesso di impedire i continui maltrattamenti e gli atti sessuali posti in essere a danno della figlia dal padre violento; nonché dei reati di cui agli artt. 110, 572 cod. pen., perché, in concorso con il marito, aveva maltrattato la predetta, con condotte reiterate e abituali, cagionandole pessime condizioni di vita.

Il ricorso per Cassazione

Avverso la predetta sentenza di condanna, l’imputata proponeva ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore di fiducia.

Secondo la difesa, il collegio del gravame sarebbe pervenuto ad una conferma della penale responsabilità, muovendo da una valutazione giudiziale delle risultanze processuali affetta da vizi logico-giuridici, da travisamenti di prova e dal ricorso ad elementi presuntivi, quanto ad alcuni aspetti di rilievo decisivo.

In primo luogo, la Corte distrettuale avrebbe omesso di valutare le risultanze probatorie dalle quali emergeva che la donna non si era rappresentata il fatto di reato e, conseguentemente, non aveva avuto consapevolezza degli abusi perpetrati dal coniuge ai danni della figlia.

Più in particolare, sarebbe erroneo ritenere la penale responsabilità della madre, sol perché la persona offesa le aveva raccontato degli abusi subiti da parte del padre. Anche perché, quest’ultima aveva più volte ritrattato e cambiato la versione dei fatti (anche in sede di giudizio). Sicché la madre aveva smesso di crederle.

I giudici del merito avrebbero dunque operato una scorretta e arbitraria ricostruzione degli eventi.

Ma è proprio così?

Secondo i giudici della Cassazione, il ricorso è inammissibile.

Dai plurimi elementi raccolti durante i due processi di merito, era emerso che la persona offesa aveva ritrattato la sua tragica confessione non perché segretamente costretta dal padre, ma perché sollecitata e pressata da entrambi i genitori, tra loro saldamente alleati contro la verità emergente dal suo racconto.

Tale approdo è, altresì, confermato dalla stessa persona offesa – ritenuta pienamente attendibile in entrambi i processi – che aveva giustificato la propria ritrattazione sulla base della frustrazione provata per il fatto di non essere creduta e per il timore di coinvolgere nella spiacevole vicenda la persona con cui intratteneva una relazione sentimentale.

La medesima conclusione non era stata smentita neppure dalle ulteriori prove acquisite nel processo.

La sentenza di condanna

A ciò deve aggiungersi – affermano i giudici della Suprema Corte – che, ai fini della formazione del libero convincimento del giudice, sussiste un effettivo contrasto fra le opposte versioni rese dall’imputato e dalla persona offesa, oggetto di valutazione da parte del giudice anche al fine di verificare l’attendibilità di quest’ultima, solo nel caso in cui sia l’imputato personalmente ad aver fornito la contrastante versione dei fatti, non essendo sufficiente invece una mera prospettazione da parte del suo difensore (ex multis Sez. 3, n. 20884 del 22/11/2016). E nel caso di specie l’imputata non ha mai sostenuto in prima persona la propria versione difensiva, non essendosi sottoposta all’esame.

Come ben evidenziato dai giudici di merito, il comportamento della madre imputata integra, dunque, i requisiti della conoscenza dell’abuso, della riconoscibilità dell’azione doverosa su di sé incombente, della volontaria omissione del comportamento impeditivo dell’evento, richiesti dalla giurisprudenza per configurare la fattispecie emergente dal combinato disposto di cui agli artt. 40, secondo comma, e 609 bis cod. pen (ex plurimis Sez. 3, n. 19603 del 28/02/2017; Sez. 3, n. 4730 del 14/12/2007).

È sulla base di tali argomentazioni che i giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno dichiarato il ricorso inammissibile e condannato la donna alla pena di legge.

La redazione giuridica

 

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