Paziente muore dopo quattro interventi, nessun risarcimento al marito

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Tribunale di Palermo, Corte d’Appello di Palermo e Corte di Cassazione rigettano la domanda del marito della paziente deceduta per asserita responsabilità sanitaria dopo quattro interventi. (Cassazione Civile, sez. III, 02/02/2024, n.3085).

La vicenda

Una donna con diagnosi di “neoplasia neuroendocrino del corpo-istmo del pancreas e litiasi della colecisti” è deceduta a causa di quattro interventi chirurgici (di laparotomia esplorativa e per la rimozione di corpo estraneo dopo il secondo intervento) effettuati tra il 23 febbraio e il 5 maggio 2007 (data del decesso) presso l’Ismett.

Il marito ha chiamato in causa Istituto Mediterraneo per i Trapianti ad Alta Specializzazione (Ismett) Srl e l’Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale e di Alta Specializzazione Civico Di Cristina Benfratelli (Arnas), per i danni patiti in conseguenza del decesso del coniuge dopo quattro interventi.

Sia in primo grado che in Appello la richiesta era stata rifiutata.

Il giudizio della Corte di Appello

I Giudici di Appello davano atto, alla luce degli accertamenti peritali condotti nel giudizio penale e della C.T.U. espletata in primo grado che:

  1. La decisione di procedere all’intervento chirurgico, essendo la neoplasia riscontrata superiore a 2 cm e positiva all’Otreoscan, rispondeva alle prescrizioni generali delle linee guida AIOM (edizione 2013), laddove l’appellante non aveva indicato quale criterio derogatorio collegato all’età, alla comorbidità e al rischio di complicanze a lungo termine “avrebbe effettivamente sconsigliato l’intervento”, posto che “l’esame complessivo delle risultanze sostanzialmente univoche rassegnate dai Consulenti anche in sede penale, confermano l’insussistenza di elementi tali da giustificare la deroga all’atto operatorio”;
  2. L’errore diagnostico commesso dall’anatomopatologo dell’Ismett (diagnosi di “Carcinoma neuroendocrino pancreatico”, mentre all’esito degli “esami istologici eseguiti in corso di causa” risultava un “tumore endocrino ben differenziato, a comportamento incerto”), “unitamente al fatto che” la paziente “conviveva con la patologia da più di tredici anni” non erano circostanze tali da incidere “sulla necessità di intervenire chirurgicamente, atteso che l’indicazione di intervenire è comunque collegata alle dimensioni della neoformazione e la positività all’Otreoscan”, non rilevando diversamente “altri parametri quali il grado di differenziazione, la presenza o meno di angio invasione e l’attività proliferativa”, giacché “ottenibili e valutabili soltanto dopo la rimozione della neoplasia e certamente non prima”;
  3. La circostanza, addotta dall’appellante al fine di dimostrare la sussistenza del nesso di causalità, “che prima del fatto illecito la vittima fosse malata, ma non bisognevole di intervento chirurgico così altamente demolitivo”, non era dirimente, poiché, in forza delle risultanze di causa, non vi erano “elementi tali da far ritenere che la scelta di “terapie meno intensive” rispetto all’intervento chirurgico avrebbe determinato l’interruzione del nesso causale che determinò il decesso della paziente”;
  4. “4) “L’errata diagnosi da parte dell’anatomopatologo dell’Ismett”, quale “valutazione in senso peggiorativo” della neoplasia, era (come affermato dal c.t.u.) irrilevante “ai fini della scelta di intervenire chirurgicamente al riguardo”;
  5. La prevedibilità della complicanza che aveva condotto al decesso della paziente (per “arresto cardiocircolatorio conseguente ad un danno alveolo-polmonare diffuso (A.R.D.S.) e M.O.F. determinatasi a seguito di una citosteatosinecrosi emorragica retro peritoneale che trova il suo momento eziopatogenetico in una deiescenza anstomotica confezionata in corso di duodeno-cefalopancreasectomia”) non aveva rilievo decisivo “ai fini dell’imputabilità dell’evento al Medico che eseguì gli interventi, essendo stato accertato che l’evento non fosse in alcun modo evitabile”.

La Corte di Cassazione viene chiamata a verificare la violazione delle regole inerenti il nesso causale.

Nello specifico, secondo il ricorrente, la Corte di merito avrebbe ritenuto non provato il nesso eziologico della causa del decesso con l’operato dei Sanitari sulla scorta di una acritica condivisione delle risultanze della C.T.U. svolta in primo grado, basata sul mero dato numerico/statistico, rappresentato dalla conciliabilità dell’intervento chirurgico per dimensioni del tumore maggiore di 2 cm di diametro”, così da negare che la “causa principale del decesso … sia stata la decisione di operare la paziente”, assunta dai medici dell’Ismett “per avere erroneamente valutato la formazione pancreatica come lesione cancerogena”.

Sempre secondo la tesi del ricorrente, non sarebbe stata applicata la prova presuntiva in quanto il Giudice di Appello non avrebbe considerato l’opportunità dell’intervento sulla base dell’età del paziente, l’errore diagnostico precedente all’intervento, l’assenza della patologia da carcinoma neuroendocrino pancreatico e di ogni elemento “a favore di un carcinoma” e la mancata considerazione del “caso concreto”, che avrebbe imposto una condotta dei Sanitari diversa da quella prescritta dalle linee guida.

Le doglianze non sono fondate.

La prova presuntiva

In tema di prova presuntiva, il Giudice è tenuto, ai sensi dell’art. 2729 c.c., ad ammettere solo presunzioni “gravi, precise e concordanti” e ad articolare il procedimento logico nei due momenti della previa analisi di tutti gli elementi indiziari, onde scartare quelli irrilevanti, e nella successiva valutazione complessiva di quelli così isolati, onde verificare se siano concordanti e se la loro combinazione consenta una valida prova presuntiva (c.d. convergenza del molteplice), non raggiungibile, invece, attraverso un’analisi atomistica degli stessi.

Il nesso causale

Sul nesso causale, il ricorrente lamenta, in sintesi, che il Giudice di Appello non avrebbe tenuto conto di plurimi elementi, convergenti tra loro, che erano tali da consentire di ritenere provato il nesso causale tra la condotta dei sanitari e il decesso del coniuge del ricorrente.

Invero, la Corte territoriale ha affrontato il profilo relativo al nesso di causalità con specifico riferimento alla valutazione del c.d. giudizio controfattuale escludendo che “la scelta di terapie meno intensive, rispetto agli interventi chirurgici effettivamente praticati, avrebbero determinato l’interruzione del nesso causale che determinò la morte della paziente”.

Non sussiste, nel ragionamento della Corte di Appello una mancata valutazione globale delle risultanze probatorie, avendo essa comunque effettuato non solo una valutazione complessiva delle prove, giungendo a ritenere insussistente la responsabilità della struttura sanitaria per la morte del paziente, ma, ancor più significativamente, avendo considerato e valutato proprio tutte le circostanze di fatto che lo stesso ricorrente adduce essere il compendio di indizi che condurrebbero ad una diversa decisione.

Pertanto, le doglianze si risolvono, complessivamente, in una critica al cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali – e, dunque, anche delle presunzioni semplici – da parte del Giudice di merito, che non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per Cassazione (Cass. n. 11892/2016), altresì prospettando, inammissibilmente, una differente inferenza probabilistica rispetto a quella adottata da detto Giudice.

Avv. Emanuela Foligno

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