I permessi retribuiti concessi al lavoratore disabile non necessariamente devono essere connessi a esigenze di cure sanitarie e non possono essere considerati abusivi
La Suprema Corte (Cass. Civ., sez. Lavoro, Ordinanza n. 20243 del 25 settembre 2020) ha escluso la legittimità del licenziamento di un lavoratore disabile che aveva usufruito di permessi retribuiti in concomitanza con le festività e per viaggi.
Non sussiste nessun comportamento abusivo in quanto i permessi retribuiti per i lavoratori disabili sono disancorati dalle esigenze di cura in quanto la Legge 104 non veicola la concessione dei permessi a esigenze di cure sanitarie.
Il lavoratore disabile adisce il Tribunale invocando la illegittimità del licenziamento.
Il Tribunale dà ragione all’uomo e dichiara illegittimo il licenziamento per giusta causa per abuso dei permessi ex art. 33 Legge 104.
Il datore di lavoro, nello specifico, aveva licenziato il disabile perché aveva aumentato i giorni di assenza utilizzando i permessi retribuiti in concomitanza con le festività e per finalità estranee a quelle connesse alla cura della sua condizione di invalido.
Anche la Corte d’Appello conferma che l’art. 33 della legge 104 ha ad oggetto le agevolazioni da riconoscere ai soggetti disabili e che tali agevolazioni sono poste “ai fini della piena integrazione nella società e nel mondo del lavoro” e conseguentemente tali agevolazioni possono essere fruite anche per finalità non inerenti esigenze di cura o visite mediche.
La Corte d’Appello, inoltre, dispone la reintegra del lavoratore.
La vicenda approda in Cassazione su impulso del datore di lavoro ritiene non accettabile l’utilizzo dei permessi da parte del lavoratore disabile non vincolato necessariamente allo svolgimento di visite mediche o di altri interventi di cura.
Nello specifico il datore di lavoro ritiene che il lavoratore disabile possa usufruire dei permessi retribuiti esclusivamente per scopi collegati a esigenze di tutela, cura o assistenza e non per finalità ricreative o personali.
Sulla scorta di tale ragionamento il datore di lavoro insiste sulla giusta causa del licenziamento per sviamento della funzione di assistenza dei permessi retribuiti ed eccepisce la reintegra nel posto di lavoro in quanto l’abuso dei permessi integra un fatto imputabile al lavoratore di rilievo disciplinare.
La Suprema Corte ritiene privo di fondamento il licenziamento perpetrato in danno del lavoratore disabile.
Preliminarmente viene evidenziato che l’art. 33, comma 6, della l. n. 104/1992 è preordinato a garantire determinati diritti al portatore di handicap grave, prevedendo la possibilità di usufruire alternativamente di permessi giornalieri (due ore) o mensili (tre giorni), di scegliere – ove possibile – una sede di lavoro più vicina al domicilio, di non essere trasferito in altra sede senza il suo consenso.
L’interesse primario cui è preposta la legge 104 è quello di assicurare la continuità nelle cure e nell’assistenza al disabile che si realizzino in ambito familiare, attraverso una serie di benefici a favore delle persone che se ne prendono cura, ma la complessiva ratio della norma è quella di garantire alla persona disabile l’assistenza e l’integrazione sociale necessaria a ridurre l’impatto negativo della disabilità.
Ne consegue che l’utilizzo dei permessi da parte del lavoratore portatore di handicap grave è finalizzato ad agevolare l’integrazione nella famiglia e nella società, integrazione che può essere compromessa da ritmi lavorativi che non considerino le condizioni svantaggiate sopportate.
Difatti, ricorda la Corte, l’art. 1 della l. n. 104/1992 prevede la piena integrazione del soggetto portatore di handicap nella famiglia, nel lavoro e nella società, per cui la concessione di agevolazioni consente di perseguire l’obiettivo di un proficuo inserimento del disabile grave nell’ambiente lavorativo, sicché l’allontanamento dal posto di lavoro più a lungo rispetto ai lavoratori (nonché ai portatori di handicap non grave) permette di rendere più compatibile l’attività lavorativa con la situazione di salute del soggetto.
I lavoratori portatori di handicap grave, proprio perché svolgono attività lavorativa, sono gravati più di quanto non sia un lavoratore che assista un coniuge o un parente invalido.
Proprio per tali ragioni la fruizione dei permessi non può essere sterilmente vincolata allo svolgimento di visite mediche o di altri interventi di cura, essendo preordinata all’obiettivo di ristabilire l’equilibrio fisico e psicologico necessario per godere di un pieno inserimento nella vita familiare e sociale.
Viene pertanto considerata corretta la decisione della Corte d’Appello che ha escluso la sussistenza di un abuso del diritto nella fruizione dei permessi da parte del lavoratore per finalità non collegate ad esigenze di cura.
In conclusione viene confermata la illegittimità del licenziamento e la reintegra del lavoratore in virtù del principio di diritto secondo cui “i permessi ex art. 33, comma 6, della l. n. 104/1992 sono riconosciuti al lavoratore portatore di handicap in ragione della necessità di una più agevole integrazione familiare e sociale, senza che la fruizione del beneficio debba essere necessariamente diretto alle esigenze di cura.
Avv. Emanuela Foligno
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