Responsabilità medica e carenza probatoria

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A causa di una crisi ipertensiva si era proceduto all’esecuzione di un prematuro parto cesareo, con necessità di isterectomia e, quindi, perdita della capacità di procreare a 28 anni, nonché il ricovero del neonato per 15 giorni presso l’Unità di Terapia Intensiva Neonatale dell’Ospedale di Agrigento.

Nello specifico, il Tribunale di Sciacca aveva ritenuto che “il ginecologo non era nelle condizioni di individuare lo stato di preeclampsia in cui versava la gravida, né di prevedere la susseguente patologia che aveva colpito la paziente e di prevenirne gli esiti dannosi sulla base dei dati di cui disponeva”. I genitori lamentano carenza probatoria e una illegittima inversione dell’onere della prova in materia di responsabilità contrattuale e medica.

La conferma della Corte di Appello

La sentenza è confermata dal Giudice di appello che osservano:

1) le ragioni di censure riproponevano le stesse argomentazioni disattese dal Tribunale con la declaratoria di inammissibilità dell’istanza, così da doversi ribadire “che le prove indicate a sostegno della querela sono o ininfluenti, poiché non basterebbero a dimostrare che le parti dei documenti impugnati, che specificamente riguardano questo giudizio, cioè le annotazioni dei registri relativi ai trattamenti applicati alla C. in occasione della visita del 28.1.2013, sono false o interpolate e non contestuali ai fatti descritti, al di là del fondamentale rilievo, ben rimarcato dal Tribunale, che la cartella clinica non contiene i registri impugnati né li presuppone, perché formata dopo e in funzione del ricovero del 30.1.2013″.

La grave disorganizzazione dell’Ospedale

2) “la grave disorganizzazione dell’Ospedale, mancante di un protocollo di compilazione di referti di pronto soccorso in cui riportare i sintomi riferiti e gli esiti di eventuali esami del paziente, con conseguente pregiudizio della possibilità di analisi completa dei fatti”, e, dall’altro lato, “ritenuto di poter fare affidamento, nel giudizio di responsabilità, su documenti di diversa e dubbia formazione e di incerta attendibilità”.
Operato una “illegittima inversione dell’onere della prova allorché ha escluso la responsabilità in capo ai convenuti pur a fronte della gravissima carenza assertiva e probatoria delle loro difese”, addossando “alla parte attrice le conseguenze dell’incompletezza della cartella clinica e fatto cieco e dogmatico affidamento sulle risultanze della CTU, incerte e discutibili a loro volta perché basate su documentazione carente, incompleta e approssimativa, come peraltro riconosciuto dallo stesso consulente dell’ufficio”; escluso “gli addebiti di negligenza e imperizia del medico ginecologo di cui sarebbe riprova l’erroneità della diagnosi proposta da quest’ultimo nelle proprie difese nel giudizio”) in quanto:

a) essendo pur vero che il CTU ha segnalato criticamente la carenza della documentazione clinica esistente, in particolare evidenziando la mancanza di informazioni sui sintomi riferiti dalla paziente in pronto soccorso e anche la scarsezza di documentazione clinica utile per trarne l’esistenza di altri sintomi patognomici possibili indicatori del viraggio verso la patologia ipotizzata, cioè preeclampsia/eclampsia”, ma “la negligenza segnalata dal CTU medesimo riguarda la generale gestione delle attività sanitarie e non propriamente l’evento che ha colpito la gravida, rispetto alla quale i documenti esaminati riportano il dato relativo alla pressione arteriosa omerale, essenziale per acclarare la patologia eclamptica”;

La carenza della documentazione clinica

b) il CTU “ha ricavato la conoscenza dei dati clinici utilizzati per rispondere ai quesiti dalla documentazione prodotta dal ginecologo, e relativa alla visita del 28.1.2013, cioè dal registro delle consegne infermieristiche e dal registro delle consegne ostetriche, e su di essi ha riscontrato che i valori della PAO rilevati sulla paziente erano nella norma”.
Precisando, quindi, che “la cefalea non costituiva un sintomo sufficiente a suscitare allarme a fronte dei valori pressori normali riscontrati”, così da escludere “che durante la visita del 28.1.2013 sarebbe stato possibile prevedere la crisi ipertensiva poi insorta, diagnosticare la patologia sottostante e intervenire per prevenirne le conseguenze” e ciò “sia perché nella sua storia naturale l’insorgenza delle convulsioni (l’eclampsia) può essere improvvisa, senza che sia preceduta dall’attesa progressione della patologia preeclamptica, sia perché gli esami di laboratorio eseguiti in data 30.01.2013, in occasione degli attacchi eclamptici erano nella norma (con l’eccezione della proteinuria), sicché con elevato grado di probabilità lo sarebbero state due giorni prima, quando la condizione clinica era ancora nella sua fase iniziale”;

c) andava, dunque, confermata la decisione di primo grado, poiché, “se il criterio clinico essenziale per la diagnosi di eclampsia è l’innalzamento della pressione arteriosa, il dato di normalità riscontrato nella gestante al 28.1.2013 esclude la negligenza o imperizia del sanitario che non ha diagnosticato e previsto la futura insorgenza”.

L’intervento di rigetto della Cassazione

I genitori della vittima minorenne impugnano la sentenza della Corte di appello di Palermo sostenendo che sia in primo, che in secondo grado, sarebbe stato violato il principio del contraddittorio e il diritto di difesa del minore, poiché il Tribunale, a seguito dell’udienza di comparizione del 5 maggio 2015, aveva “posto a carico della parte attrice due oneri processuali di impossibile conciliazione logica e procedurale”, ossia aveva concesso termine per le memorie ex art. 183, comma sesto, c.p.c. e, contestualmente, aveva imposto ad essi l’onere di farsi autorizzare dal giudice tutelare “in ordine alla permanenza in giudizio del minore… nel termine di giorni 30 a decorrere sempre dalla suddetta prima udienza di comparizione”.
Così da comprometterne “la facoltà di difesa sia in termini quantitativi (in sede di stesura delle memorie istruttorie, quantomeno) rispetto ai convenuti, che qualitativi in quanto la concessione dell’autorizzazione da parte del G.T. avrebbe avuto certamente delle conseguenze circa l interesse dei genitori alla prosecuzione del giudizio”.

Censurano, anche, una illegittima inversione dell’onere della prova in materia di responsabilità contrattuale e medica e che le risultanze della CTU di primo grado, cui la Corte ha aderito, in quanto la presunta imprevedibilità dell’evento dannoso (preclampsia/eclampsia con conseguente isterectomia), verificatosi in pregiudizio della gravida è stata accertata sulla base esclusiva di documentazione carente, incompleta, imprecisa, approssimativa oltre che discordante, per come peraltro accertato dal medesimo Consulente tecnico d’ufficio.

La carenza probatoria

La S.C. evidenzia, innanzitutto che la decisione di secondo grado è rispettosa del principio secondo “qualora venga dedotto il vizio della sentenza di primo grado per avere il tribunale deciso la causa nel merito prima ancora che le parti avessero definito il thema decidendum e il thema probandum, l’appellante che faccia valere tale nullità non può limitarsi a dedurre detta violazione, ma deve specificare quale sarebbe stato il thema decidendum sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare, ove fosse stata consentita la richiesta appendice di cui all’art. 183 c.p.c., e quali prove sarebbero state dedotte, con l’evidenziazione del concreto pregiudizio derivato dalla loro mancata ammissione.”

Il Giudice di secondo grado ha ribadito il giudizio di inammissibilità dell’istanza di proposizione della querela di falso sui documenti prodotti dal ginecologo operando, anzitutto, una delibazione sulle “prove a sostegno delle querela”, ritenute ininfluenti a dimostrare la falsità delle “parti dei documenti impugnati”.

Ciò fa corretta applicazione del principio, consolidato, secondo cui rientra nella valutazione della rilevanza del documento per la decisione della causa, demandata al Giudice di merito per autorizzare la proposizione della querela di falso (art. 221 c.p.c.) in via incidentale, e quindi sospendere il giudizio principale, esaminare se i mezzi di prova offerti sono idonei, astrattamente considerati ed indipendentemente dal loro esito, a privare di efficacia probatoria il documento impugnato.

La prova dell’assenza di negligenza o di imperizia

Al riguardo viene precisato che la querela di falso in corso di causa, deve essere prima “proposta” ai sensi dell’art. 221 c.p.c., e, quindi, “presentata” ai sensi dell’art. 222 c.p.c., il che può avvenire solo dopo l’autorizzazione del Giudice che ne abbia positivamente valutato l’ammissibilità. Solo la “presentazione”, e non la “proposizione” della querela dà origine al subprocedimento incidentale di falso, in seno al quale l’unico compito del giudice della querela è quello di affermare o negare la falsità dell’atto (in tal senso Cass. n. 12263/2009).

Riguardo la asserita violazione degli oneri probatori, la Corte di appello non ha posto in essere alcuna illegittima inversione dell’onere di prova, ma si è attenuta al principio per cui “le regole sull’onere della prova sono disposizioni di giudizio residuali rispetto al principio di acquisizione probatoria – secondo il quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute, concorrono alla formazione del libero convincimento del giudice (non condizionato dalla loro provenienza) – e trovano, dunque, applicazione solo in presenza di un fatto rilevante rimasto ignoto sulla base delle emergenze probatorie (evenienza esclusa nel caso di specie).

Questo significa che i Giudici di secondo grado non hanno ha applicato la regola residuale dell’art. 2697 c.c., ma hanno ritenuto raggiunta, in base alle risultanze agli atti, la prova dell’assenza di negligenza o di imperizia nella condotta del ginecologo così da escludere l’inadempimento della prestazione sanitaria.

Per tali ragioni il ricorso viene rigettato con condanna al pagamento delle spese del giudizio di legittimità (Corte di Cassazione, III civile, ordinanza 5 febbraio 2025, n. 2858).

Avv. Emanuela Foligno

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