In materia di liquidazione del danno patrimoniale da responsabilità sanitaria la Suprema Corte fa il punto della situazione individuando quattro tipologie tipiche

Gli Ermellini (Cass. Civ., sez. III, sentenza n. 28988 del 11 novembre 2019), fanno il punto della situazione in tema di danno patrimoniale e ricordano che l’evento lesivo può incidere in vari modi sull’attività lavorativa del danneggiato.

Le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l’id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.

La vicenda trae origine dalla richiesta risarcitoria proposta dai genitori del minore per i danni derivanti dal parto.

Le poste risarcitorie invocate in giudizio riguardano il danno patrimoniale nell’aspetto del lucro cessante da inabilità permanente e nell’aspetto del danno emergente da perdita di possibilità attuale e futura – cd perdita di chance – e il danno non patrimoniale.

Il Tribunale respingeva la domanda risarcitoria, mentre la Corte d’Appello, in riforma della sentenza impugnata, condannava i convenuti al risarcimento dei danni in favore degli appellanti.

La vertenza approda in Cassazione su impulso della Compagnia assicuratrice della Struttura Sanitaria che lamenta la errata determinazione del danno non patrimoniale in favore del minore danneggiato.

Secondo la Compagnia, la Corte di merito avrebbe erroneamente personalizzato il danno non patrimoniale in quanto tale operazione andrebbe eseguita solo in casi particolari .

Con il secondo motivo viene lamentata anche la errata determinazione del danno patrimoniale svolta dalla Corte territoriale.

Secondo l’Assicurazione la circostanza che il padre del bambino fosse un militare appartenente all’Arma dei Carabinieri non costituisce una presunzione verosimile in ordine alla predisposizione del bambino alla carriera  militare.

Ed ancora, la percentuale invalidante riconosciuta al bambino nella misura del 13% non è tale da compromettere l’attività lavorativa futura.

La Suprema Corte ha ritenuto fondata la doglianza sotto un duplice profilo.

Non risulta chiaro dagli atti di secondo grado se  il danno riconosciuto è stato valutato in termini di incapacità lavorativa specifica o generica.

Il danno alla capacità lavorativa generica, come noto, rientra nell’alveo di quello biologico.

Tale posta risarcitoria, infatti, non riguarda la produzione del reddito, ma la menomazione dell’efficienza psicofisica che va valutata unitariamente al danno biologico in termini di cenestesi lavorativa.

Gli Ermellini fanno il punto della situazione in tema di danno patrimoniale e ricordano che l’evento lesivo può incidere in vari modi sull’attività lavorativa del danneggiato.

Vengono prospettate quattro ipotesi:

1) che la vittima conservi il reddito, ma lavori con maggior pena. È questo il danno da lesione della cenestesi lavorativa, e cioè la compromissione della sensazione di benessere connessa allo svolgimento del proprio lavoro;

2) che la vittima abbia perso in tutto o in parte il proprio reddito. E’ questo il danno da lucro cessante;

3) che la vittima abbia perso il lavoro ma possa svolgerne altri, compatibili con la propria formazione professionale;

4) che la vittima non lavorava, e non potrà più lavorare a causa della invalidità.

La prova della presumibile attività futura dovrà essere corroborata da presunzioni gravi, precise e concordanti.

Quanto deciso dalla Corte d’Appello viene ritenuto censurabile in quanto, non solo non sono state considerate le attività lavorative compatibili con la menomazione fisica riscontrata, ma anche perché è stato fatto riferimento “all’attività svolta dal padre del danneggiato, operando un evidente salto logico”.

Si doveva, invece, verificare se, sulla base della relazione del CTU, sussisteva una concreta incidenza sulla capacità lavorativa specifica e, in particolare, rispetto a quali tipologie di attività lavorative.

La impeccabile decisione qui in commento risulta innovativa  perché non si limita a ricordare principi del tutto pacifici, come il danno alla capacità lavorativa generica rientrante nell’alveo di quello biologico e i criteri della personalizzazione del danno non patrimoniale, ma illustra quattro ipotesi che incidono sull’attività lavorativa dell’infortunato.

Il danneggiato può conservare il proprio reddito ma, in conseguenza dell’evento lesivo, l’attività lavorativa sarà più faticosa. In questo caso ci si trova di fronte al c.d. danno da lesione della cenestesi lavorativa che andrà valutato in seno al danno biologico.

Il danneggiato può avere perso in tutto, o in parte, il proprio reddito, configurandosi il caso tipico del danno patrimoniale da lucro cessante.

Il danneggiato può aver perso il proprio lavoro ma può svolgerne altri, compatibili con la propria formazione professionale. In questo caso bisognerà valutare  la differenza (ove sussistente) tra reddito perduto e presumibile reddito futuro.

Il danneggiato non aveva un lavoro, e non potrà più averlo a causa della invalidità. Anche questo è un danno patrimoniale da lucro cessante, da liquidarsi in base al reddito che verosimilmente il soggetto leso, ove fosse rimasto sano, avrebbe percepito.

La Suprema Corte sta, quindi, cristallizzando quattro ipotesi che incidono sull’attività lavorativa dell’infortunato.

Avv. Emanuela Foligno

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