I familiari di un paziente deceduto chiedono la revisione dei preparati istologici che conferma la mancata diagnosi di neoplasia maligna

La vicenda deriva dal decesso di un uomo per mancata tempestiva diagnosi di neoplasia maligna (confermata dalla revisione dei preparati istologici), a seguito del quale veniva chiamata in giudizio l’Azienda Ospedaliera e viene decisa dal Tribunale di Rimini (sentenza n. 386 del 28 settembre 2020).

I congiunti dell’uomo deceduto chiedono in giudizio il risarcimento dei danni che quantificano nell’importo di oltre un milione di euro.

All’uomo nel corso di un primo ricovero presso il Reparto di Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale, a causa di una insufficienza renale cronica, veniva riscontrata la presenza di una neoplasia al colon ascendente destro che comportava la necessità di un nuovo ricovero.

Il paziente durante il secondo ricovero veniva sottoposto a resezione colica e veniva dimesso con diagnosi di neoplasia colon dx, ma la massa tumorale non veniva asportata integralmente a causa di un errore nella localizzazione del tumore, veniva inoltre asportata una parte di colon sana.

Avveniva un terzo ricovero e un terzo intervento chirurgico cui seguiva il decesso dell’uomo.

La causa viene istruita attraverso C.T.U. Medico-legale e prove testimoniali e il Tribunale accoglie la domanda dei familiari del paziente deceduto.  

Preliminarmente il Tribunale evidenzia l’orientamento ormai consolidato inerente l’onere probatorio del creditore di prestazione sanitaria, confermando che ha il solo onere di allegare l’altrui inadempimento, mentre grava sul debitore l’onere della prova del fatto estintivo dell’obbligazione, costituito dall’intervenuto esatto adempimento, in assenza della quale l’inadempimento potrà ritenersi provato.

Più nello specifico, in tema di responsabilità civile medico-chirurgica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto  e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie) e del relativo nesso di causalità con l’azione od omissione dei sanitari, secondo il criterio  ispirato alla regola del più probabile che non.

Ne consegue che la responsabilità della struttura sanitaria ha per l’appunto natura contrattuale e può scaturire tanto ex art. 1218 c.c. dall’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, quanto ex art. 1228 c.c. dall’inadempimento della prestazione medico – professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario anche in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e l’organizzazione aziendale della struttura, non rilevando in contrario neppure la circostanza che il medico sia stato scelto in quanto “di fiducia” del paziente.

Ebbene, nel giudizio sono stati allegati significativi elementi in ordine alla gravità degli inadempimenti posti in essere dai sanitari, dei quali la struttura sanitaria è chiamata per l’appunto a rispondere ex art. 1228 c.c. ed alle conseguenze pregiudizievoli che ne sono derivate paziente.

Gli esiti della C.T.U. hanno fornito la prova dell’inesatto adempimento dei sanitari e del nesso eziologico tra gli interventi chirurgici e il decesso.

Il Consulente ha specificato che “la revisione dei preparati istologici allestiti presso la U.O.C. di Anatomia Patologica dell’Azienda Sanitaria relativi ai prelievi bioptici di parete colica ed al materiale operatorio inerente segmenti di intestino tenue e crasso conferma la presenza di neoplasia tumorale maligna, più precisamente di adenocarcinoma nei campioni bioptici riferibili ad entrambe le colonscopie effettuate rispettivamente nel febbraio e nel maggio 2013 e nella resezione colica del maggio 2013”.

Tuttavia, l’esito dell’esame istologico effettuato “…sul pezzo anatomico” dopo la conclusione dell’intervento “…evidenzia “parete di grosso intestino sede di soluzione di continuo transparietale con circostante aspetto iperplastico di alcune cripte ghiandolari e focale steatonecrosi con flogosi gigantocellulare. Appendicite con obliterazione fibro-adiposa del fondo. Margini di resezione indenni. Quindici linfonodi repertati esenti da ripetizione neoplastica”.

In sostanza, nel tessuto asportato non viene rinvenuta traccia alcuna della neoplasia in precedenza riscontrata sul paziente ed in ragione della quale era stato effettuato l’intervento chirurgico, il che porta il CTU a concludere nel senso che “…appare evidente, come il primo intervento non sia stato non tanto risolutivo (poiché talvolta l’eradicazione della lesione può non essere possibile tecnicamente), ma piuttosto senza esito alcuno da un punto di vista terapeutico, in quanto non ha coinvolto in alcun modo la neoformazione  neanche in parte (“margini indenni da localizzazione neoplastica”).

Quindi nel corso dell’intervento chirurgico di emicolectomia fu asportato un segmento intestinale non interessato dalla lesione neoplastica in assenza, di conseguenza, di rimozione della lesione neoplastica.

La ragione per cui l’intervento non ha in alcun modo coinvolto la parte “malata” del tessuto viene dal CTU rinvenuta in due specifici profili di imperizia ascritta ai sanitari incardinati nella struttura convenuta.

Il primo, nell’erronea localizzazione della lesione in sede di esame endoscopico precedente l’intervento.

Il secondo, nella non adeguata verifica per palpazione del colon residuo che avrebbe potuto permettere di individuare la neoplasia nella sede successivamente identificata dalla seconda colonscopia.

Tale grave condotta integra inadempimento colposo e fatto illecito colposo in capo alla Struttura Sanitaria.

Passando alla verifica del nesso causale tra condotta colposa dei sanitari e decesso del paziente il Tribunale osserva che  è del tutto evidente come l’assenza di esito alcuno, sul piano terapeutico, del primo intervento – lo stesso avendo sostanzialmente comportato l’inutile asportazione di tessuto sano dal paziente – abbia reso necessaria l’esecuzione, in data 27.05.2013, di un ulteriore intervento di “…emicolectomia destra allargata al colon trasverso cui è conseguito, nel periodo post-operatorio, un quadro clinico di subocclusione intestinale fino al decesso”.

Per tali ragioni la sussistenza del nesso eziologico è inequivocabile.

Ma, ciò che è più grave, secondo il C.T.U. è la nefasta combinazione del primo e del secondo intervento che ha comportato la “…conseguente alterazione dell’equilibrio idro-elettrolitico in soggetto affetto da insufficienza renale cronica correlabile a subocclusione intestinale fino all’exitus del soggetto”.

Tanto premesso, in ordine alla acclarata responsabilità della Struttura Sanitaria,  i familiari hanno chiesto la liquidazione iure hereditatis del danno non patrimoniale (in termini di invalidità temporanea e permanente) asseritamente sofferto paziente in conseguenza dei fatti per cui è causa, nonché il risarcimento iure proprio del danno non patrimoniale sofferto per la perdita del rapporto parentale.

Nella specie è stato considerato che tra la fase iniziale della condotta colposa ascrivibile alla Struttura ed il decesso è intercorso un arco di tempo di 92 giorni, risultando, pertanto, risarcibile il danno biologico terminale sofferto dalla vittima sub specie, appunto, di postumi necessariamente non permanenti riportati nell’arco di tempo compreso tra il momento dell’evento lesivo e quello della perdita della vita.

Il Tribunale riconosce, altresì, il danno catastrofale e adotta quale parametro il criterio di liquidazione unitaria individuato dalle Tabelle milanesi.

Il danno terminale, comprensivo della componente biologica temporanea, viene liquidato in euro 82.190,00.

Il totale dovuto in favore del coniuge a titolo di danno non patrimoniale iure hereditario ammonta a euro 25.814,58, mentre il totale dovuto in favore di ciascuno dei figli è pari a euro 13.102,85, considerata la quota di eredità agli stessi spettante in applicazione delle disposizioni relative alla successione legittima.

Per il danno da perdita del rapporto parentale del coniuge viene liquidato l’importo di euro 300.000,00.

Per il medesimo titolo viene liquidato in favore della figlia convivente l’importo di euro 300.000,00, mentre in favore degli altri 3 figli non conviventi l’importo di euro 280.000,00 ciascuno.

L’Azienda sanitaria viene, dunque, condannata a rifondere ai congiunti gli importi sopra indicati e al pagamento delle spese di lite per oltre 25mila euro.

Avv. Emanuela Foligno

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