Chi si appropria di un oggetto le cui caratteristiche intrinseche permettono l’individuazione del titolare, commette il reato di furto, mentre i successivi possessori sono punibili per il reato di ricettazione
“Ove per le caratteristiche intrinseche dell’oggetto, sia individuabile il suo titolare, chi si appropri dello stesso commette il delitto di furto e non appropriazione di cosa smarrita”. La successiva circolazione del bene, inoltre, comporta la contestazione ai successivi possessori della fattispecie di ricettazione in quanto anch’essi nella condizione psicologica di conoscere l’altruità della cosa e la sua origine illecita. Lo ha chiarito la Suprema Corte di Cassazione pronunciandosi sul ricorso presentato da un uomo condannato alle pene di legge perché ritenuto responsabile del delitto di ricettazione di una postepay provento di furto in danno del titolare.
Contro la sentenza dei giudici di merito l’uomo proponeva ricorso per cassazione eccependo, tra gli altri motivi: l’insussistenza del dolo specifico (art. 648 cod.pen), in quanto l’imputato, non conoscendo il codice di sicurezza della carta, non poteva trarne profitto; l’erronea applicazione della legge penale in riferimento alla qualificazione del fatto come ricettazione trattandosi, a suo avviso, di un caso da ricondurre alla fattispecie di appropriazione di cose smarrite ex art. 647 cod.pen., ipotesi ora depenalizzata.
La Suprema Corte, tuttavia, con la sentenza n. 4132/2020, ha ritenuto le argomentazioni dell’imputato manifestamente infondate.
I giudici Ermellini, in particolare, hanno evidenziato come il possesso di una carta postepay, anche priva del codice numerico, non determini un reato impossibile ex art. 648 cod.pen. Tale fattispecie, infatti, è consumata al momento della ricezione del bene con la consapevolezza della provenienza illecita. Le circostanze di fatto relative alla non utilizzabilità dell’oggetto per assenza del codice PIN numerico, non rilevano nella struttura del reato che si è consumato in un momento anteriore.
Quanto all’erronea qualificazione giuridica del fatto, la Cassazione ha ricordato che, in base alla giurisprudenza di legittimità, nell’ipotesi di smarrimento di cose che, come gli assegni o le carte di credito, conservino chiari ed intatti i segni esteriori di un legittimo possesso altrui, il venir meno della relazione materiale fra la cosa ed il suo titolare non implica la cessazione del potere di fatto di quest’ultimo sul bene smarrito.
Di conseguenza, colui che se ne appropria senza provvedere alla sua restituzione commette il reato di furto e non quello di appropriazione di cose smarrite.
Difatti, ai fini della configurabilità del delitto di appropriazione di cose smarrite, di cui all’art.647 cod. pen., è richiesta la sussistenza di tre presupposti: che la cosa rinvenuta sia uscita dalla sfera di sorveglianza del detentore; che sia impossibile per il legittimo detentore ricostruire sulla cosa il primitivo potere di fatto per ignoranza del luogo ove la stessa si trovi; che siano assenti segni esteriori pubblicitari tali da consentire di identificare il legittimo possessore.
Nel caso in esame, invece, i segni esteriori del bene ne attestavano l’appartenenza ad un preciso legittimo titolare. Pertanto, posto che il reato presupposto è sempre quello di furto, la successiva circolazione della carta mediante il trasferimento ad altri integra l’ipotesi di ricettazione.
La redazione giuridica
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