Sarà reintegrata la lavoratrice licenziata per aver rifiutato di firmare l’accordo di riduzione temporanea dello stipendio: anche per i giudici della Suprema Corte il licenziamento aveva natura ritorsiva

La vicenda

La Corte d’appello di Milano aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento e condannato la società datrice di lavoro alla reintegra della dipendente.

La sentenza della corte milanese si fondava sul rilievo della mancata dimostrazione, da parte datoriale che ne aveva l’onere, del nesso causale tra la addotta crisi economica (contrazione del fatturato in un ambito di crisi) posta a base del recesso e la necessità di sopprimere la posizione occupata dalla lavoratrice licenziata.

Ritenuta, dunque, l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo, la Corte territoriale aveva rilevato l’intento ritorsivo del licenziamento, desumibile dal fatto che esso fosse stato comunicato a distanza di un giorno dalla mancata sottoscrizione, da parte della lavoratrice, del verbale di conciliazione che l’azienda aveva sottoposto ad alcuni dipendenti nel quale era prevista la prosecuzione per ulteriori due anni della riduzione del complessivo trattamento economico.

Il licenziamento per ritorsione

La Corte di Cassazione ha già chiarito che il licenziamento per ritorsione costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova anche con presunzioni.

Nel caso in esame, la corte d’appello aveva fatto ricorso alla prova per presunzioni onde risalire, dalla sequenza dei fatti accertati, all’accertamento del fatto ignoto, costituito dal motivo ritorsivo come l’unico determinante del recesso.

La decisione

Ebbene, nell’argomentare il ricorso, la società datrice di lavoro non aveva mosso alcuna critica alla motivazione della sentenza impugnata ragionando e spiegando perché essa avrebbe violato, nei sensi indicati dalla giurisprudenza, il paradigma dell’art. 2729 c.c.; ed anzi aveva solo svolto argomentazioni volte a criticare la ricostruzione di dati fattuali operata dai giudici dell’appello, formulando censure di merito non sindacabili in sede di legittimità.

In particolare, la ricorrente aveva dedotto l’errore commesso dalla Corte d’appello per aver assunto come elemento decisivo la contiguità temporale del licenziamento al rifiuto opposto dalla lavoratrice di sottoscrivere l’accordo sulla riduzione temporanea del trattamento economico, “senza però inserire questo indizio nel generale contesto della complessiva situazione aziendale e della posizione della lavoratrice stessa e senza considerare il complessivo risultato della ricca attività istruttoria e probatoria espletata dal tribunale”.

In conclusione, il ricorso è stato rigettato con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali (Cassazione Lavoro, sentenza n. 31527/2019).

La redazione giuridica

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